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1969. Led Zeppelin, tre lampi accecanti in un cielo blues

Quando il 27 settembre 1968 mettono piede negli Olympic Studios di Londra per incidere il loro primo album insieme, Page, Plant, Jones e Bonham non hanno né un nome né una casa discografica

Parte II

O meglio, un nome ci sarebbe: quello con cui avevano appena affrontato una decina di date in Scandinavia (The Yardbirds). Ma su quel punto ci sono seri dubbi, sia per motivi legali che per le insistenze delle recenti reclute Plant e Bonham, fermi nell’intenzione di presentarsi al mondo con un moniker nuovo di zecca. Almeno, però, un manager i futuri Led Zeppelin ce l’hanno: è quel Peter Grant che di lì a qualche mese si sarebbe dimostrato uno dei più formidabili asset della band, praticamente un quinto imprescindibile membro. L’assenza di legami discografici, poi, si rivela un fatto positivo, perché garantisce a Jimmy Page e soci una libertà creativa inconsueta per i tempi. Non dovendo rispondere di nulla a nessuno, Page – che di fatto è il leader incontrastato – si sente libero di sperimentare a suo piacimento e di perseguire la visione che già da qualche tempo aveva maturato su quale dovesse essere il suono di una moderna rock band. Paga d’altronde di sua tasca, con i suoi risparmi, il costo della sala e dell’ingegnere del suono (Glyn Johns), in tutto 1782 sterline. Cifra non esorbitante, dato che peraltro le session di questo primo Lp non vanno oltre le 30 ore: i futuri Zep avevano affinato i brani alla perfezione durante il tour scandinavo e in sala non restano un minuto più del necessario, giusto il tempo di mettere su nastro nove tracce più qualche outtake e poi di mixare le prime. Come dichiarerà in seguito John Paul Jones, “più o meno si trattò di registrare il nostro show [dal vivo]. È per questo motivo che ci sono così tante cover. Era tutto quello che avevamo pronto a quell’epoca”. In seguito, molti indicheranno in LED ZEPPELIN il disco che ha inventato l’heavy rock, o heavy metal, ma in realtà quel campo era già stato in precedenza arato dalla Jimi Hendrix Experience e dai Cream, per non parlare del seminale TRUTH del Jeff Beck Group (fra l’altro, anch’esso gestito da Peter Grant). Tuttavia, in questa affermazione c’è un fondo di verità, perché Jimmy Page & Co. illuminarono un diverso troncone dell’heavy rock, più dinamico e progressive, fatto di chiaroscuri e di alternanze quiet/ loud, percorso anche da umori folk e – in seguito – etnici, e non soltanto dal blues. Ed è innegabile che il virtuoso riffeggiare di Page, il white man blues lancinante di Plant e l’aggressivo tambureggiamento di Bonham hanno lasciato un segno sul futuro heavy metal molto più marcato di quanto siano riusciti a fare Hendrix, Clapton e Beck: le loro band – per innovative che fossero – erano fondamentalmente legate agli anni 60, mentre i Led Zeppelin erano già proiettati verso il decennio successivo.

Pur non essendo il miglior album dei Led – quel titolo va assegnato d’ufficio ai più completi II e IV, tenendo però conto del folto numero di estimatori di PHYSICAL GRAFFITI – LED ZEPPELIN ha un’importanza inestimabile nella loro discografia, perché getta le basi e prefigura quelli che saranno i punti di forza della band. È già tutto contenuto, in fondo, in Babe I’m Gonna Leave You e Dazed And Confused, i due brani di oltre 6 minuti che rappresentano il “cuore” dell’album e che già da soli lo renderebbero (anzi, lo rendono) un grandissimo esordio. Si tratta in entrambi i casi di cover, ma talmente stravolte e ledzeppelinizzate da meritarsi la palma di versioni definitive, tanto che oggi (quasi) nessuno più ricorda gli originali da cui gli Zeppelin presero spunto. Il folk-blues acustico Babe I’m Gonna Leave You, eseguito da Joan Baez nel suo Lp del 1962 IN CONCERT, PART 1, era stata una delle prime canzoni che Jimmy Page aveva fatto sentire a Robert Plant dopo averlo accolto nel gruppo. Si trattava del tipico pezzo alla Joan Baez, che qui però diventa tutt’altra cosa: un inarrestabile rollercoaster emozionale dove si alternano delicati momenti folk in fingerpicking a sfuriate heavy in cui Page, Bonham, Jones e Plant (con la sua ripetuta invocazione “baby baby baby” probabilmente ispirata alla Summertime della Big Brother & Holding Company di Janis Joplin) sembrano dare – e forse perdere – l’anima. Se possibile, Dazed And Confused è ancora più heavy e ricca di chiaroscuri. Qui, il punto di partenza era un vecchio pallino di Page, una folk-song che aveva sentito dalla voce del suo autore – Jake Holmes – nel ’67 in un club del Greenwich Village mentre era in tour con gli Yardbirds. Gli era piaciuta talmente tanto che insieme al cantante Keith Relf ne aveva realizzato una prima versione elettrica dal titolo I’m Confused, suonata qualche volta dal vivo ma mai incisa su disco. Nel settembre del ’68, però, la ritidirò fuori dal cassetto e con il contributo dei suoi tre nuovi compagni di viaggio la fece diventare uno dei pezzi più potenti e sconvolgenti dei tardi anni Sessanta. È tutto perfetto, in Dazed And Confused: la linea di basso discendente di Jones che apre le danze, la voce di Plant che si fa man mano più angosciata, e quindi le vere e proprie martellate di Bonham in sincrono con il memorabile riff alla Fender Telecaster di Jimmy Page, che di lì a poco crea un’atmosfera anomala e rarefatta grazie all’innovativo uso dell’archetto di violino, prima di tornare al tema iniziale in un impareggiabile saliscendi emozionale. Passeranno gli anni, i tempi cambieranno e il repertorio si amplierà, ma Dazed And Confused resterà tra le canzoni “top” dei Led Zeppelin – un marchio di fabbrica – tanto è vero che sarà eseguita sempre, costantemente, in concerto fino al 1975.

E c’è un terzo pezzo che altresì guarda avanti, verso un altro futuro possibile che però, in questo caso, non sarà ulteriormente perseguito dagli Zep: la feroce, compatta (2’ 30” in tutto) Communication Breakdown, che riascoltata oggi fa uno strano effetto per quanto sembri anticipare il punk che verrà: a non saper nulla, la si direbbe suonata dagli Stooges di RAW POWER o, ancora, dai Dictators o dai Dead Boys, se non fosse per il dettaglio della caratteristica voce bluesata di Robert Plant. Potrebbe sembrare azzardato accostare i Led Zeppelin alla loro antitesi con le spille da balia, eppure così è (fra l’altro, pare che Johnny Ramone fosse rimasto molto colpito dallo stile di “pennata” di Jimmy Page su questo pezzo, tanto da imitarlo più volte): a riprova che a volte le cose non sono lineari come sembrano.

Rientrano invece nel solco della tradizione di una band rock blues inglese degli anni Sessanta le due cover di Willie Dixon piazzate al centro di ciascuna facciata dell’Lp: You Shook Me (già rivisitata anche dal Jeff Beck Group su TRUTH dell’agosto del ’68) e I Can’t Quit You Baby. Si tratta, in entrambi i casi, di showcase delle capacità strumentali e vocali del gruppo; di un modo, per Jimmy Page, di incrociare le spade con i rivali Cream e Beck e con la miriade di band inglesi e americane intente, in quel momento storico, a rivitalizzare (e a “indurire”) il suono del blues di Chicago. Tuttavia, riascoltate oggi – e nonostante la loro energica e appassionata zeppelinizzazione – risultano tra gli episodi meno interessanti di questo esordio. È sicuramente più originale, sullo stesso terreno, How Many More Times, l’esteso brano firmato Page / Jones / Bonham / Plant che chiude il disco basato sul riff di The Hunter di Albert King e di cui Page approfitta per sperimentare con il wah-wah e con la chitarra suonata con l’archetto, anche se a furia d’improvvisare il brodo risulta un po’ troppo diluito. Rispetto alle blues / heavy band contemporanee, tuttavia, i Led Zeppelin avevano molte più frecce nel loro arco. Possedevano una vena folk, per esempio, come dimostrato da Page sullo strumentale acustico Black Mountain Blues, suonato in fingerpicking e ispirato ai suoi numi tutelari Bert Jansch e Davy Graham; avevano in John Paul Jones un più che valido tastierista, come si può sentire nelle note di organo che aprono l’ibrido gospelblues Your Time Is Gonna Come; ed erano anche in grado di comporre delle convincenti pop song da tre minuti, come si evince da Good Times Bad Times, il potente rhythm’n’blues alla Yardbirds posto in apertura che annunciò al mondo nel migliore dei modi l’arrivo di Plant, Page, Jones e Bonham e che venne anche pubblicato negli USA su 45 giri (circostanza quanto mai rara, dato il veto generalmente posto da Page a estrapolare brani dagli album). Completato e mixato il disco, nel giro di meno di un mese i quattro trovarono il nome – suonando per la prima volta come Led Zeppelin il 26 ottobre 1968 al Bristol Boxing Club – e di lì a poco anche la casa discografica, accasandosi presso la Atlantic di Ahmet Ertegun. LED ZEPPELIN fu pubblicato prima in America, il 17 gennaio 1969, e a distanza di un paio di mesi nel Regno Unito, avvolto nella famosa copertina recante il dirigibile Hindenburg in fiamme, fotografato nel 1937 poco prima di abbattersi al suolo. Il pubblico lo amò all’istante (spingendolo fino al n. 10 negli USA e al n. 6 in Inghilterra), ma i critici, incredibilmente, lo stroncarono. Magari perché videro nei Led Zeppelin un gruppo costruito a tavolino o, anche, per via di un’avversione alle istrioniche performance di Robert Plant. Sarebbero dovuti passare due, tre o forse più anni, ma alla fine avrebbero – tutti – riconsiderato la propria opinione.

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