
1971. Led Zeppelin IV, Simboli di grandezza
Irritati dalle recensioni tiepide incassate da III, i Led Zeppelin rispondono per le rime.
Parte VI
Tra gli accademici zeppeliniani si discute da sempre su quale sia il disco migliore della band. Le prese di posizione sono molteplici, d’altronde Page e compagni hanno sviscerato il rock in tutte le sue forme, affrontando blues, folk, hard rock, proto metal e rock di classe, tanto da concedere a chiunque di avere i suoi Led Zeppelin preferiti. Naturalmente, questa visione ad ampio raggio non è mai stata piaggeria verso l’ascoltatore, ma un’urgenza creativa irrefrenabile, la stessa per cui sono diventati i… Led Zeppelin. Il motivo stesso per il quale, a distanza di quasi quattro decenni dallo scioglimento, i loro dischi continuano a essere ascoltati, amati e idolatrati da vecchie e nuove generazioni. In termini di vendite, forse il quarto album è quello che ha regalato maggiori soddisfazioni ai protagonisti, ma secondo molte classifiche di riviste e libri, che per quanto relative, sono pur sempre significative, IV è il secondo per importanza e si piazza a distanza siderale da II. Strano che da queste classifiche sia sempre escluso III, che è forse il vero motivo per cui il successivo è diventato un disco leggendario.
Con quel lavoro, infatti, i Led Zeppelin scoprono il folk britannico e lo portano nelle case di tutti. Dalle controversie che genera prende forma l’idea di un lavoro come IV, argomento di discussione sin dalla copertina. Ma come ogni esperienza, anche la gestazione di un lotto di canzoni viene influenzata dallo stato d’animo del momento, dall’obiettivo da raggiungere e da ciò che è accaduto prima. Ed è proprio quest’ultimo uno degli snodi fondamentali di IV. I musicisti si approcciano alla lavorazione dopo un lungo tour, che oltre a promuovere il precedente, ha lo scopo di allontanarli da tutte le critiche piovutegli addosso. La stampa infatti non era stata tenera con la svolta folk e, anche se il pubblico aveva gradito, la band aveva incassato male certe recensioni tiepide.
I quattro decidono così di isolarsi da tutti e si chiudono nel Bron-Yr-Aur, il cottage gallese di proprietà di Plant, dove elaborano spunti, testi e idee abbozzati in precedenza negli Island Studios. L’atmosfera rilassata è di forte aiuto e infatti, quando si trasferiscono nella villa vittoriana Headley Grange, nell’East Hampshire, il puzzle prende forma. La villa è un vecchio rifugio del diciottesimo secolo per oppressi e casa di cura per malati di mente, che naturalmente alimenta le voci di stregoneria e satanismo che già circondano la band, soprattutto Page. Pur se concentrati sul nuovo materiale, i Led Zeppelin non rinunciano ai concerti, e anzi approntano un intenso tour (proprio in questo giro di concerti cade la funesta data del 5 luglio al Vigorelli di Milano, di cui vi raccontiamo a parte). La tournée diventa anche l’occasione per testare alcune canzoni nuove, non sempre nella versione definitiva, come una Stairway To Heaven abbozzata il 5 marzo a Belfast. Quando a fine estate il gruppo decide di concentrarsi sulle fasi finali del disco, si accorge che molto è ancora da fare. Il missaggio finale elaborato a Los Angeles trova un fervente oppositore in Page, che riprende i nastri in mano negli studi inglesi Olympic e Island e con lavoro certosino compie un’opera chirurgica, facendo slittare l’uscita di alcuni mesi e costringendo i manager dell’Atlantic a forti dosi di tranquillanti per arginare lo stress. Quello che è bene chiarire è che alcune scelte, che negli anni diventano argomento di discussione, tanto da entrare nelle nebbie della leggenda, vengono prese semplicemente per mancanza di tempo. Una scelta invece intenzionale è quella della copertina, non tanto per il messaggio (su cui molti hanno fantasticato, e che invece nasconde molti meno segreti di quanti se ne raccontano), ma per il fatto che dovesse essere assolutamente anonima. Racconta Page: “In molti ci avevano accusato di essere solo il frutto di un grande lavoro manageriale e che la nostra reputazione nasceva quasi solo dalla pubblicità e da una strategia commerciale. Questa cosa ci aveva offeso, ecco perché decidemmo di non mettere nessuna scritta sulla copertina”. I dirigenti della casa discografica sono a un passo dall’esaurimento nervoso: ai loro occhi, una copertina senza nome della band né titolo è un suicidio.
E non è finita, perché i musicisti pretendono di non mettere nemmeno i loro nomi. È il collasso. I simboli che sostituiscono i nomi, che campeggiano nella busta in terna e hanno alimentato tante leggende, vengono scelti in fretta dal Book Of Sign di Rudolph Koch: i tre cerchi che s’incrociano indicano Bonham (la famiglia) e i tre ovali in un cerchio Jones (la protezione dal Male). Il cantante e il chitarrista li personalizzano: la piuma in un cerchio di Plant rappresenta una sorta di equilibrio tra natura e vita. Page invece è ZoSo, in cui molti hanno visto un riferimento a Zos Kia Curtis, il culto del mistico Austin Osman Spare, figura esoterica che attorciglia la sua storia con quella di Aleister Crowley. La busta offre solo i simboli, i titoli dei brani, qualche raro cenno tecnico e il testo di Stairway To Heaven. Il titolo del disco verrà invece assegnato dal pubblico e dalla critica, e anche se ufficialmente non è certificato nulla, per tutti diventa IV, dopo essere stato di volta in volta indicato come UNTITLED, ZOSO, FOUR SYMBOLS, THE FOURTH ALBUM e THE HERMIT. Già, l’eremita, versione personalizzata della medesima carta dei tarocchi, che nella parte interna apribile della copertina si staglia sulla vetta di un monte e, con una fioca lanterna in mano, sembra vegliare e forse dominare il villaggio sottostante.
Non è chiaro, ma sembra che per raggiungere la vetta ci sia un percorso, forse la scala per il paradiso. Le ipotesi fatte sul significato della copertina sono varie. La più accreditata parla di una visione del ciclo della vita, passato, presente e futuro, con il quadro del vecchio su una parete distrutta dagli anni. Sul retro, un moderno grattacielo che domina e contrasta con un caseggiato in pessime condizioni, ma forse ancora abitato. Come sempre, i Led Zeppelin non si appoggiano a singoli pezzi e appoggiano le loro aspettative sull’intera opera, considerata come un fluire unico di canzoni. Ancora una volta, il quartetto sfodera una scaletta magistrale, studiata con fare maniacale anche nella successione. L’apertura è affidata a due brani potentissimi, che contrastano con l’atmosfera bucolica con la quale ci avevano salutati nel disco precedente: parte Black Dog, con Plant che squarcia il silenzio con voce tagliente e poi il ritmo sincopato che è energia pura, brano stratificato con varie sovraincisioni e un uso innovativo della tecnologia di studio.
Segue Rock And Roll, nato in una jam session con Ian Stewart, pianista dei Rolling Stones: il titolo è tanto esplicito quanto il brano è trascinante – quella batteria assordante in apertura – al punto che diventa il pezzo di apertura dei concerti. Il mandolino che introduce e conduce The Battle Of Evermore, in un rigoglio di cori e voci (con l’ospite di lusso Sandy Denny dei Fairport Convention e altri), ci riporta alle atmosfere celtiche di III e nel testo fantasy chiama in causa il capolavoro letterario di J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli. È la perfetta anticamera per LA canzone, quella Stairway To Heaven di cui tutto e di più è stato scritto, ma forse non abbastanza, se oggi a distanza di quasi 50 anni siamo ancora qui a tesserne le lodi. La canzone che contiene l’assolo di chitarra che spinse un critico a scrivere che “in quel momento Jimmy stava certamente parlando con Dio”. Non cercate messaggi subliminali o incisioni al contrario, non ne troverete traccia. Tuttavia, come ammette Jones, “quel vociare inutile ci diede una forte spinta pubblicitaria”.
Per curiosità, diciamo che nel 1960 Neil Sekada aveva inciso un bel brano surf pop con lo stesso titolo: sorridendo, diceva che gli sarebbe piaciuto che quella sua canzone avesse avuto anche solo metà del successo di quella degli Zeppelin. In Misty Mountain Hop John Paul Jones si diverte con il pianoforte creando un’atmosfera boogie, su cui Plant stratific le voci. Ed è proprio Plant quello che da questo disco esce come un uomo nuovo: non più solo potenza come agli esordi o armonie folk come in III, ma una meravigliosa completezza, che stende sul tappeto armonico un ventaglio delle sue possibilità. Going To California è magia e poesia, tenerezza e malinconia, una ballata elegiaca dove lui intona una melodia di velluto su un arpeggio magico, puntellato dalla tecnica sublime di Page.
La chiusura è affidata alla batteria di Bonham (che contribuisce alla scrittura, come in Rock And Roll), che dirige l’andatura di When The Levee Breaks, un blues rock pigro e solare, baciato dalla classe del quartetto, rilettura ampiamente personalizzata del brano della blues woman Memphis Minnie, citata comunque tra i crediti. Da questa sessione di registrazione alcuni brani vengono solo abbozzati, Boogie With Stu e Black Country Woman per esempio, e troveranno forma compiuta su PHYSICAL GRAFFITI.
Se vogliamo fermarci ai freddi numeri, va detto che IV ha venduto quasi 40 milioni di copie nel mondo, raggiunto il podio di molte classifiche e accumulato decine di targhe per dischi d’oro e di platino. Cifre da capogiro, tuttavia degne dell’eccellenza dei contenuti artistici. E l’occulto? L’esoterismo? La magia? It’s only rock’n’roll.