
1973, Houses Of The Holy. Cambiare, per non morire
Cosa inventarsi dopo una pietra miliare che ha messo d’accordo pubblico e critica?
Parte VIII
Il Selciato del gigante è un affioramento roccioso naturale situato sulla costa nord-est irlandese, circa 3 chilometri a nord della cittadina di Bushmills. È lì che due bambini posano nudi per Audrey Powell, celebre fotografo della Hipgnosis, mentre a fatica camminano sulle rocce. In post-produzione, Powell assembla i vari scatti replicando le figure che, alla fine, diventano 11 in totale. Quindi, con il libro Childhood’s End di Arthur C. Clarke in mente, lo studio artistico applica vari effetti grafici e questa suggestiva immagine diventa la copertina del quinto album di studio dei Led Zeppelin. Tra l’altro, il primo con un titolo completo, sebbene in origine posto solo sul cellophane, con una striscia lunga che va a coprire le nudità più ravvicinate dei bambini (per arginare i prevedibili strali della censura dell’epoca, a rischio di accuse di pedofilia).
Ma com’è il quinto disco degli Zeppelin? Cosa inventarsi dopo una pietra miliare come IV, che ha messo d’accordo pubblico e critica? Non è semplice, ma il quartetto risponde con il tentativo di andare un pochino oltre gli steccati ampliando ulteriormente lo spettro compositivo e stilistico. Jimmy Page è sempre più bravo come produttore ed esploratore di suoni, John Paul Jones cresce sempre più nell’economia sonora della band, i testi di Robert Plant si slegano da tematiche fantasy. Insomma, il gruppo prova, per quanto pos
rallentasibile, a fare un passo avanti. E ci riesce, cambiando in parte anche la metodologia di registrazione: giunti a questo punto, infatti, sia Page che Jones dispongono di studi personali, per cui alcuni brani vengono già impostati dall’uno o dall’altro e, in seguito, completati e rifiniti da tutto il gruppo.
Il disco si apre con The Song Remains The Same, che tre anni dopo darà il titolo al doppio live e al film. Scritta da Page e Plant, la canzone è introdotta da un riff di chitarra su ritmo serrato, con un giro di basso solistico che si muove sull’arpeggio della 12 corde. Terminata l’introduzione, un rallenta mento permette l’ingresso alla voce, a stacchi ritmici e cambi di accordi. Sotto l’assolo di chitarra, Jones disegna linee di basso notevoli, mentre Plant si produce in vocalizzi con una voce stridula, volutamente accelerata in studio. Il brano avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni, solo uno strumentale utile a introdurre la successiva The Rain Song. Nei suoi quasi otto minuti di durata, la seconda traccia è molto interessante: intro morbida realizzata da chitarre, voce delicata e una struttura quasi folk/prog, enfatizzata dal mellotron e dal piano di Jones. La canzone prosegue su questa vena, ma con un crescendo che, poco dopo, consente l’ingresso della batteria, dapprima in maniera soft, poi con colpi più secchi sotto l’aumento di volume delle tastiere e di tonalità della voce.
Un brano nato, secondo la leggenda, come risposta a George Harrison, che a Bonham aveva detto che il problema dei Led Zeppelin era che non scrivevano ballate. L’influenza folk/prog resiste anche nella successiva Over The Hills And Far Away, anch’essa aperta da un mix di chitarre di Page, ma stavolta acustiche a 6 e 12 corde. La voce di Plant sale di un tono quando subentrano i classici power chords dell’elettrica, che si produce anche in un non proprio necessario assolo sulla base della ritmica. Curioso invece il finale, con accordi di clavicembalo e note di slide guitar.
The Crunge è una jam avviata da un ritmo di Bonham sul quale il giro di basso di Jones è ancora una volta pregiato, mentre il ruolo di Page è, all’inizio, in funzione di ritmica funky. Ci sono anche interessanti controtempi di Bonham sotto il canto di Plant, mentre Jones aggiunge un sintetizzatore in fase di rifinitura. Virtuosa quindi la sezione ritmica, ma il brano si conclude con una frase parlata di Robert Plant che chiede “dov’è quel maledetto bridge?”, ironizzando sull’abitudine di James Brown di incidere in studio senza aver prima provato con i suoi musicisti.
The Crunge, infatti, sfrutta volontariamente uno stile funk proprio di Brown, e ciò si ripete anche con D’yer Mak’er, seconda canzone del lato B. Questa appare tuttavia molto discutibile, artisticamente parlando: le influenze ritmiche sono quelle proprie del reggae ma con una batteria molto heavy (registrata piazzando tre microfoni a congrua distanza dai tamburi), mentre Plant canta una melodia giocosa e anche un po’ sciocca.
A salvare in zona Cesarini il pezzo (il cui titolo storpia il termine ‘Jamaica’ detto con accento inglese), l’assolo di chitarra e il piano alla fine. Se Dancing Days è un brano ritmato, cantato in maniera un po’ cantilenante da Plant e con la linea melodica della chitarra (anche slide) che riporta l’influenza di una melodia indiana ascoltata da Page durante un viaggio a Bombay, la canzone più interessante del disco è sicuramente No Quarter, sette minuti di cui è protagonista strumentale John Paul Jones, a cominciare dall’intro di piano elettrico. A seguire, nell’ordine, la sezione ritmica, una chitarra dal sound troppo sporco e la voce filtrata di Plant. Jones suona con le tastiere anche le parti di basso, oltre che il pianoforte. Ma l’assolo è riservato, come sempre, a Jimmy Page, con una chitarra dapprima pulita, poi distorta appena un po’.
Infine The Ocean, firmata in quattro, con il testo dedicato all’oceano dei fan così come appare agli occhi della band dalla visuale del palco: un riff irregolare lancia il canto, stridulo e grottesco, di Plant, ma la parte intermedia è insolitamente a tre voci (a quella di Robert si aggiungono quelle di Bonham e Jones). Più avanti arriva un cambio d’atmosfera, con il giro blues dagli ulteriori cori in chiave doo-wop e un assolo di chitarra.
Pubblicato a marzo 1973 (con due mesi di ritardo causati dalle difficoltà esecutive della copertina), HOUSES OF THE HOLY non incontra i favori di tutta la critica, pur comportandosi benissimo in classifica: primo posto non solo in America e Inghilterra, ma anche in Australia e Canada. Da noi, invece, deve accontentarsi del n. 4.