
1975 , PHYSICAL GRAFFITI. ECCO I LED ZEPPELIN MAI SENSITI PRIMA
Il martello degli dei, ma anche “la musica che ascoltavamo nelle discoteche”. E naturalmente, il brano per cui Page vorrebbe essere ricordato.
Parte IX
La minaccia di Jones di mollare la band se i ritmi dei tour continuano come negli anni precedenti qualche effetto lo produce: il 1974 i Led Zeppelin lo trascorrono senza fare concerti in giro per il mondo e, oltre a Jones, il più contento è Bonham, che da sempre odia volare e rimanere lontano dalla famiglia. C’è, però, il compito di realizzare un nuovo album che, peraltro, già è stato iniziato in alcuni preliminari alla fine dell’anno precedente. Il disco ha anche la funzione di fugare i dubbi, in retrospettiva tutto sommato relativi, che hanno accolto HOUSES OF THE HOLY e la formazione ci si mette d’impegno.
“Ci ha preso molto tempo e noi volevamo spenderci tempo”, dichiara nel 1974 Bonham a «Sounds». “Non volevamo fare le cose in fretta perché sapevamo che entro due mesi dovevamo andare in tour”. Page, da parte sua, nel 2015 a «Mojo» ricorda che “ci stavamo tutti spingendo l’uno con l’altro per creare qualcosa che non si era mai sentito prima”.
A distanza di quarant’anni, in occasione della presentazione della deluxe edition, il chitarrista confermerà che se l’album suona differente dai precedenti è proprio perché, con la sospensione dell’attività live, per la prima volta il quartetto ha avuto l’opportunità d’impegnarcisi senza pause. “La gente mi diceva che finalmente avevo del tempo libero”, racconta, “ma ricordo che io allora lavoravo, ero davvero eccitato, non vedevo l’ora di stare in studio”.
Tutto avviene in inverno a Headley Grange e alla fine la band si ritrova con otto brani che nella loro durata non entrano in un solo Lp. Così, terminate le registrazioni, si opta per un doppio album, recuperando un po’ di tracce escluse dai precedenti dischi.
In autunno termina la fase del missaggio e PHYSICAL GRAFFITI esce nel febbraio dell’anno successivo per la neonata creatura discografica della band, la Swan Song. Come spiega ancora Page, il titolo gli viene in mente perché “all’epoca c’erano molti graffiti in giro per Londra, ma non le cose hip hop di oggi. Erano più che altro slogan e citazioni da William Blake”. E quando comunica l’idea ai compagni, “non ci sono stati dubbi. Lo hanno accettato. La nostra era vera musica fisica e i nostri suoni erano come graffiti sulle pareti del palazzo in cui stavamo registrando. E sul nastro magnetico. Era pura spinta fisica”. E fisica e spontanea, in effetti, è la musica che esce dai solchi. Ora heavy e ora rilassato, PHYSICAL GRAFFITI punta sulla semplicità e si avventura in esplorazioni ardite. Ma c’è sempre il segno Zeppelin “martello degli dei” a legare il tutto. Kashmir è, ovvia mente, l’episodio più caratteristico, nonché il più sperimentale, e quasi inaspettato viene fuori alla fine della seconda facciata del vinile.
Da tempo, Plant e Page sono molto affascinati dalle musiche arabe e indiane. Il primo, inoltre, è sposato con una donna nata a Calcutta e le sonorità del grande Paese asiatico girano non poco nel giradischi della loro abitazione. Il riff il chitarrista lo ha ideato sperimentando l’accordatura DAGDAD (la cosiddetta scala celtica molto usata anche nella musica mediorientale e indiana) ed è un ostinato ascendente in 3/4. Alla fine del 1973, Page lo prova con il solo Bonham che gli risponde con un massiccio 4/4. È genio puro, perché proprio il contrasto tra i due tempi, che s’incontrano ogni dodici quarti, conferiscono al brano la sua inaudita potenza. Plant, da parte sua, porta in dono un testo scritto mentre era in viaggio nel sud del Marocco con Page e una performance che in un’intervista del 1995 ricorderà come difficile da creare (“era come se la canzone fosse
troppo grande per me”). Per il bridge, poi, è Jones ad armonizzare per scale discendenti il mellotron, gli archi e i fiati, mentre l’impetuoso impatto tridimensionale dato dalla batteria viene da un’idea del tecnico del suono Ron Nevison, che la tratta con il Phaser Eventide. Nasce così un capolavoro che entusiasma tutti – in particolar modo, Plant lo considera il brano per il quale gli piacerebbe che i Led Zeppelin fossero ricordati, più del solito Stairway To Heaven.
Insomma, Kashmir è più o meno l’immensità, ma non è che il resto dell’opera sia tanto inferiore. Qualche momentaneo calo c’è pure, però in generale nel corso delle quattro facciate le luci restano sempre accese. La rocciosa Custard Pie, che gioca con l’immagine macho condivisa da Plant con i suoi amichevoli modi hippie, e soprattutto Trampled Under Foot, sporchissima e con un clavinet molto Stevie Wonder, proseguono in modo davvero trascinante le pulsioni funk di The Crunge.
“La musica che ascoltavamo nelle discoteche”, dirà a «Mojo» Page citando il tour americano del 1973, “ha alimentato quello che stavamo facendo. Ma in fondo noi siamo sempre stati dentro il funk. Si potrebbe dire che noi suonavamo funk anche nelle prime registrazioni. Per esempio in The Lemon Song”. In My Time Of Dying è invece un lungo, coinvolgente e drammatico pezzo ispirato da un traditional degli anni Venti in cui l’inarrestabile Plant canta della sua morte; The Wanton Song e Sick Again segnano nuove rutilanti tappe dei Led Zeppelin tellurici; Ten Years Gone rievoca con nostalgia una vecchia storia amorosa del cantante. In più c’è In The Light, dove a sorpresa la band flirta con il progressive: nell’introduzione, Page utilizza l’archetto su una chitarra acustica per suggerire sonorità tipo harmonium; Jones, che in buona parte ha composto il pezzo, inventa con l’EMS VCS3 il suono dell’indo-pakistano shanai.
“Sistemate le linee vocali e il fraseggio”, ricorda Page in Guitar Greats di John Tobler e Stuart Grundy, “dovresti sapere dove non suonare, che è tanto importante quanto sapere dove invece si deve suonare. Così per In The Light sapevamo già come sarebbe stata costruita, ma ancora non avevo idea che John Paul Jones stava creando questa straordinaria introduzione con il sintetizzatore. In più, c’erano queste chitarre tipo archi per dare a tutto un effetto drone. In seguito abbiamo fatto un bel po’ di altre cose con i droni, come in In The Evening, ma quello che Jones ha ideato per l’inizio di In The Light è semplicemente incredibile”. Poi ci sono gli scarti dei precedenti album che, oggettivamente, scarti non lo sono proprio: The Rover è una delle tracce escluse da HOUSES OF THE HOLY ed è splendida. È un vagabondaggio hard rock con il Phase Shifter premuto e si fatica a credere che sia stato concepito come pezzo acustico nella pace agreste di Bron-Yr-Aur. “In The Rover tutto è nella sua spavalderia, nell’atteggiamento spavaldo della chitarra”, spiegherà Page nel 2015 a «Rolling Stone». “Ho paura a dirlo, ma questo è quello che esce evidente quando si ascolta Rumble di Link Wray, intendo però solo l’atteggiamento generale. Una cosa del genere probabilmente fa parte del mio DNA”.
Sempre dal disco del 1973, ovviamente, proviene anche Houses Of The Holy, un tuono di rock’n’roll che all’epoca avrebbe dovuto essere la title-track dell’album, così come il folk-blues viziosetto di Black Country Woman. Dalle session del quarto, invece, riemergono la trascinante jam con il pianista Ian Stewart Boogie With Stu, l’ambientalista e west coast Down By The Seaside (altro frutto dei giorni di Bron-Yr-Aur) e Night Flight dove, cosa quasi unica nel repertorio della band, Page si trattiene e non va in solo. Bron-Yr-Aur, poi, come evidenzia il titolo, è un’altra bella eredità dei giorni trascorsi nell’eremo gallese ed è una breve piece di chitarra acustica dai tratti folk. Last but no least, la copertina, ovviamente apprezzabile in pieno solo nell’edizione in vinile: opera di Peter Corriston e Mike Doud, presenta al centro due palazzi situati al 96-98 di St Mark’s Street, a New York. Gran parte delle finestre sono ritagliate e con un gioco d’incastri possono comparire al loro interno sia il titolo dell’opera sia le immagini riprodotte nelle inner. Tra i soggetti figurati ci sono, oltre ai quattro Zeppelin, anche Stan Laurel & Oliver Hardy, King Kong, l’astronauta Buzz Aldrin che passeggia sulla luna, Elizabeth Taylor “Cleopatra”, la Vergine con bambino del Pontormo, il Bacco del Caravaggio, la Dama dell’ermellino di Leonardo, Elisabetta II, un paio di gatti, uno strip-tease vintage e Judy Garland. Mai chiarito, invece, chi è il tipo un po’ barbone seduto sulle scale del primo edificio. Secondo qualcuno, è John Bonham.