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1976, Presence. It’s only rock and roll

Mai un disco dei Led Zeppelin era stato così scarno a livello di strumentazione.

Parte XI

E l’estate del 1975 quando la famiglia Plant, in vacanza sull’isola di Rodi, viene coinvolta in un brutto incidente automobilistico. Per fortuna non ci sono vittime, ma la signora Maureen se la vede nera e lo stesso Robert ne esce molto ammaccato e pieno di paure. Addirittura, a un certo punto, teme che non potrà più camminare. Ovviamente annullato il tour mondiale, che sarebbe dovuto partire un paio di settimane dopo, dopo un po’ di totale inattività Page scalpita e propone di sfruttare il tempo a disposizione lavorando a un nuovo album.

Plant, intanto, aveva già abbozzato dei testi durante la convalescenza nelle isole Channel prima e a Malibu poi. Ed è proprio nella città californiana che Page lo raggiunge. Quando i due hanno abbastanza carne al fuoco, prenotano i Musicland Studio di Monaco di Baviera dove, finalmente, si uniscono alla festa anche Jones e Bonham. Ne viene fuori un disco che, più di qualunque altro, è diretto e marcatamente rock’n’roll.

La sezione ritmica ha spazio compositivo molto marginale, ma ciò non gli impedisce di suonare in maniera strepitosa. E poi, mai un disco dei Led Zeppelin era stato così scarno a livello di strumentazione: voce, chitarra, basso e batteria. Appena un po’ di armonica, neanche l’ombra di tastiere.

L’album si apre con Achilles Last Stand, che nei suoi dieci minuti e mezzo mostra tutto ciò che ha portato il gruppo nell’olimpo del rock di sempre: un’introduzione morbida, un riff potente di chitarra sotto la cavalcata della ritmica (impressionanti le rullate di Bonzo, mentre Jones suona il riff di risposta a quello della chitarra), quindi solo di Page e stacchi vari, con una vaga reminiscenza di quel progressive che sta annaspando sotto i colpi del punk, ma a cui si può associare anche l’arpeggio conclusivo.

Straordinario il lavoro di Jimmy, con un arrangiamento orchestrale delle chitarre grazie alle sovraincisioni e a qualche trucchetto di sala (in alcuni punti, i suoi strumenti vengono accelerati in studio). For Your Life spicca per la costruzione assolutamente diretta: la base di tutto è ancora un riff di Jimmy, al quale risponde una batteria particolarmente heavy di Bonzo.

Ottima, sebbene registrata da seduto, la prestazione vocale di Plant, che alterna il canto regolare ad alcune sezioni più urlate (nel testo, il vocalist lancia un atto d’accusa contro l’abuso di cocaina che sta rovinando la scena musicale californiana) che danno il via a una variazione di accordi, con stacchi in sincronia di chitarra e basso. I tre minuti di Royal Orleans sono gli unici in cui anche Bonham e Jones sono accreditati tra gli autori. Proprio quest’ultimo sarebbe l’involontario ispiratore del testo – infatti, la storia è riferita alla disavventura capitata al bassista (e in seguito parzialmente smentita) quando scoprì che la ragazza che pensava di essersi portato nella camera dell’hotel di New Orleans in cui soggiornava la band era, in realtà, un travestito. Nella sua semplicità, il brano testimonia il divertimento del quartetto e spicca per gli stacchi in controtempo e l’assolo di Page.

Forse il brano più interessante è però quello che apre il lato B, Nobody’s Fault But Mine, introdotto da un riff indolente di slide guitar doppiato dai vocalizzi di Plant. L’interazione ritmica è formidabile, con stacchi sincopati e un Bonham più in forma che mai, specie quando picchia le pelli violentemente in supporto all’assolo di armonica. La canzone
nasce dall’idea di Plant di fare una cover del (quasi omonimo) brano di Blind Willie Johnson per esorcizzare l’idea che, in quel momento poco felice, si stava insinuando nella sua mente, ossia che tutta la negatività che si diceva la musica degli Zeppelin sprigionasse si stesse ritorcendo su di sé e la sua famiglia.

Alla fine però l’arrangiamento creato da Page la rende qualcosa di completamente diverso. Cambio di atmosfera per Candy Store Rock, un divertente rock’n’roll puro che mantiene lo spirito degli anni 50 ma con un approccio più duro. È una delle canzoni preferite di Robert, ma decisamente più interessante suona la successiva Hots On For Nowhere, con il riff di basso e chitarra in sincronia che detta il continuo ‘stop & go’ del ritmo, a cui il canto di Plant s’incastra alla perfezione, seguito da un ottimo assolo di chitarre sovraincise. Una canzone sviluppatasi da cose precedenti come Walter’s Walk del 1975 (anche se poi pubblicata solo su CODA) o alcune versioni live di Dazed And Confused.

L’album si chiude con Tea For One: il ripetitivo riff iniziale di chitarra, assecondato da basso, batteria e una linea solistica, è solo una intro che depista rispetto alle intenzioni. Segue infatti un rallentamento: la chitarra pulita e la voce sensuale di Plant portano la struttura chiaramente in ambiti da blues classico, con l’unica eccezione di una batteria molto più presente. Quasi un’autocitazione, ricorda spudoratamente quella Since I’ve Been Loving You inclusa in III.

Eccellente, secondo Page, la prestazione di Plant (il cui canto è alternato ad assolo puliti di chitarra), particolarmente intensa nell’espressione del lamento di chi soffre di solitudine e isolamento in una stanza d’albergo durante uno dei tanti tour. Presentato da una bizzarra copertina come al solito opera dello studio Hipgnosis (una famigliola siede a una tavola dove campeggia un obelisco nero), l’album è disco d’oro in Inghilterra prima ancora della pubblicazione (che avviene il 31 marzo 1976) grazie alle prenotazioni, conquistando facilmente la vetta. Va subito al primo posto anche in America, dove però scivola alla posizione 24 appena due settimane dopo, pagando forse lo scotto di un ritorno alle radici più rock dopo aver abituato i fan alla sperimentazione.

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