
ALLA CORTE DI KOBA
La SCALATA al potere assoluto di Stalin, lo “ZAR ROSSO” che per quasi TRENT’ANNI tenne in PUGNO l’Unione Sovietica
Parte VII
Il 21 dicembre di ogni anno Irina festeggia il compleanno del suo idolo: Stalin, al secolo Iosif Vissarionovič Džugašvili, nome di battaglia Koba. Sul suo eroe non ha dubbi: «Ha fatto della Russia una superpotenza e ha salvato il mondo dal nazismo», dice. Irina non è sola, sulla Piazza Rossa. In un sondaggio russo di qualche anno fa, Stalin è arrivato terzo nella top-ten degli uomini più importanti della storia patria. È l’onda lunga di un culto della personalità imposto oltre 70 anni fa dal rivoluzionario che si fece zar.
Stella nascente
Dal 1913 aveva scelto il nome Stalin (in russo, “d’acciaio”) ma per i compagni più intimi continuò a essere Koba (nome in codice preso a prestito dal protagonista di un romanzo su un ribelle del Caucaso, come lui che era nato in Georgia).
Sul pedigree rivoluzionario dell’ex seminarista Džugašvili, oltre a sette condanne al confino (e sei fughe) c’è, secondo voci ricorrenti, l’ombra del tradimento: avrebbe fatto il doppio gioco, vendendo alcuni compagni alla polizia segreta zarista. Di fatto, nel primo governo sovietico, al “magnifico georgiano” (parole di Lenin) fu affidato il commissariato (ovvero il ministero) delle nazionalità: come dattilografa scelse la sua futura moglie Nadja, come segretario il fratello di lei. Era quello il nucleo della di là da venire corte dello “zar rosso”.
Nel Politburo (l’organo di governo del partito, cuore del potere sovietico) c’erano invece gli attori del dramma che attorno a quella corte si sarebbe consumato: Trotzkij (l’intellettuale-generale fondatore dell’Armata Rossa) e Kamenev, che con Zinovev (influente capo dell’Internazionale comunista) e lo stesso Stalin fu “triumviro” del dopo-Lenin.
Solo lui, il leader malato, aveva colto l’ambizione di quel georgiano risoluto e di grande fascino. In un testamento segreto chiese di allontanarlo dal potere. Ma quando Lenin morì, nel 1924, il politburo preferì ignorare quel saggio consiglio e lo lasciò al suo posto: segretario del comitato centrale del partito, una carica creata nel 1922 apposta per lui e che gli garantì subito enormi poteri. Così, fu Koba a prendere in mano la situazione in quel momento cruciale.
Modello vincente
Ai funerali, Stalin lesse un giuramento di fedeltà a Lenin nonostante i violenti contrasti che li avevano divisi pochi mesi prima. Subito dopo, Stalin si affrettò a proporre la creazione del culto del leader morto. Lenin doveva essere la prima divinità dell’Olimpo rivoluzionario. A questo scopo fu imbalsamato e fatto accomodare nel mausoleo sulla Piazza Rossa. A protestare contro l’idea – che introduceva il culto della personalità – c’erano, in prima fila, la vedova di Lenin (che Stalin aveva già ammonito:“Attenta, o il partito nominerà un’altra moglie di Lenin”) e Trotzkij.
Trotzkij osservò che quello era il modo in cui la Chiesa ortodossa conservava i suoi santi e trovò l’idea “assolutamente medioevale”. Aveva centrato il punto: Stalin aveva in mente proprio quel tipo di potere, lo stesso che da secoli conoscevano i russi, centralizzato e assolutista. Koba aveva un modello ben chiaro in testa: Ivan il Terribile, lo zar che 5 secoli prima aveva ricompattato la Russia attorno al potere centrale di Mosca, facendo fuori tutta “la Casta” del tempo: i boiari, gli aristocratici che ammorbavano la sua corte.
Vecchio corso
Tra i boiari bolscevichi, Trotzkij era il primo sulla lista nera di Koba-Ivan. Temutissimo leader dell’opposizione interna, per molti era lui l’erede naturale di Lenin. Pensava che la rivoluzione russa avrebbe prima o poi contagiato il mondo. Ma ci voleva tempo. Stalin offrì invece, con un’inversione a U che procurò la vittoria politica a lui e la condanna all’esilio a Trotzkij (poi fatto assassinare in Messico nel 1940), l’alternativa del “qui e subito”: il socialismo in un solo Paese. Un Paese di cui lui sarebbe stato il vozd, la guida.
Nel 1927, con il pretesto dell’ennesima crisi agricola, fu Stalin a volere la legge marziale che sarebbe di fatto durata fino alla sua morte, nel 1953. E due anni dopo, mentre l’Occidente scivolava nella Grande depressione, fu sempre lui a indicare il primo nemico interno da combattere: i piccoli proprietari terrieri, che i russi chiamavano kulaki. La “liquidazione dei kulaki come classe” (parola d’ordine di Koba) fu affrontata con solerzia e fu la prova generale del terrore staliniano.
Per realizzare quell’obiettivo, Mosca distribuì alle regioni quote di arresti. Che presto i funzionari locali cominciarono a superare in una sfida sanguinaria. In cifre: decine di migliaia di persone uccise nelle requisizioni e oltre 1 milione di deportati, le cui terre furono annesse alle fattorie collettivizzate (i kolchos).
L’operazione innescò una devastante carestia che uccise da 4 a 10 milioni di persone in Ucraina. La carestia fu spiegata dalla propaganda non come conseguenza della collettivizzazione, ma come effetto dei sabotaggi. Un ritornello ripreso ogni volta che repressione indiscriminata e deficit organizzativi provocavano lo stop di una fabbrica o uno sgarro alle quote produttive imposte dal piano di industrializzazione forzata dell’Urss.
A ritmo di jazz
Mentre i funzionari periferici requisivano, arrestavano e deportavano e mentre l’Ucraina moriva di fame, la corte di Koba viveva la sua età dell’oro. “Che relazioni limpide, belle, amichevoli!”, annotava in quegli anni la moglie di Vorosilov, papavero del partito.
Gli archivi sovietici, accessibili dagli Anni ’90, rivelano un’immagine della vita sociale al Cremlino molto simile a quella di un piccolo villaggio. Tutti si conoscevano. Gli inviti a cena negli appartamenti del vozd diventarono con il tempo il barometro del gradimento politico, mentre gli scambi di visite servivano a tessere intrighi degni dei boiari di Ivan.
Un appartamento all’interno del Cremlino o nelle case costruite sul vicino lungofiume diMosca significava aver toccato il vertice della carriera. E significava partecipare a scatenate feste a ritmo di jazz (anche se Stalin, tenore dilettante, preferiva i canti tradizionali georgiani). Ma c’era un prezzo da pagare. «Stalin distribuiva personalmente automobili nuove e ultimi ritrovati della tecnologia», spiega Simon Sebag Montefiore, storico inglese dell’Università di Cambridge autore di una dettagliata biografia del dittatore, «ma intanto controllava personalmente le loro vite».
Pretesto
A far calare una cappa di sospetto e paura sulla corte di Koba e, a cascata, su tutta l’Urss, fu un assassinio che, per l’effetto-choc, è la versione sovietica dell’attentato al presidente Usa John Kennedy. A cadere fu Sergej Kirov, fedelissimo di Koba e capo del partito a Leningrado (oggi San Pietroburgo), freddato il 1° dicembre 1934 da un sicario nei corridoi dei suoi uffici. Era il pretesto che Stalin aspettava per firmare la legge d’emergenza che segnerà quel decennio: i processi per terrorismo e attività controrivoluzionarie (reati definiti in un solo articolo del Codice penale, il 58, abbastanza generico da includere chiunque) andavano celebrati entro 10 giorni e le sentenze dovevano essere eseguite immediatamente, senza appello. I mandanti dell’omicidio Kirov? Stalin non aveva bisogno di indagare (ma fece sapere alla stampa che lo avrebbe fatto personalmente): Kamenev (che tra l’altro aveva fatto l’errore di sposare una sorella di Trotzkij) e Zinovev. Erano i due “boiari” che lo avevano salvato ignorando il testamento di Lenin, ma anche gli unici concorrenti potenziali.
I “pesci piccoli” furono liquidati subito: l’assassino, altri 14 coimputati e i relativi famigliari. Poi, nel solo mese successivo, furono fucilate altre 6.500 persone in qualche modo legate a Kamenev e Zinovev. «Stalin non aveva ancora piani precisi per il crescente terrore», spiega Montefiore. I due “pesci grossi” furono tenuti da parte fino al 1936 per un rito destinato a ripetersi: il processo-farsa. «Stalin ordinò personalmente di condannare a morte Kamenev e Zinovev come agenti trotzkisti. Promise loro la grazia per ottenerne le confessioni, ma quando il polit buro gli comunicò il parere contrario in proposito, rispose con un telegramma: “Va bene”», dice Montefiore.
Nel tritacarne
La paranoia complottista scatenata da Koba nel partito si estese come un virus rapidissimo in tutta la società, attraverso gli organi dello Stato. Chi veniva denunciato (magari da un funzionario locale che voleva mettersi in luce, o da qualche rivale) finiva in quello che i russi del dopo-Stalin chiamarono “tritacarne”: arresto improvviso, trasferimento nei sotterranei della Lubjanka (la sede della polizia segreta a Mosca), interrogatori martellanti, privazione del sonno in cella (dove era spesso presente un finto prigioniero, in realtà un informatore), percosse (la tortura fu autorizzata formalmente nel ’37) e minacce ai famigliari. Risultato: le vittime di Stalin erano tutte ree confesse. Il clima di sospetto e l’istigazione sistematica alla delazione lasciarono il loro segno in quasi ogni famiglia. «Mio padre aveva combattuto i tedeschi e liberato Berlino nel 1945», ricorda Elena Lebedeva, ingegnere in pensione. «Eravamo sfollati sugli Urali quando ci dissero che papà era stato deportato come spia. Accadeva a molti di quelli che, avendo combattuto in Occidente, erano stati in contatto con americani o inglesi. Negli Anni ’60 fu riabilitato, ma era già morto. Una nostra vicina fu invece arrestata perché qualcuno la denunciò come spia polacca. Non la vedemmo più».
Con quei ritmi, l’Amministrazione centrale dei campi di lavoro correttivi (in sigla Gulag) divenne il principale fornitore di manodopera per le “grandi opere”. Nella Russia destalinizzata circolava una storiella sul tema: “Chi ha scavato il canale del Mar Baltico? La riva destra chi aveva raccontato barzellette. E la sinistra? Chi le ha ascoltate”. Non è solo una battuta. Alla morte di Stalin pare fossero circa 200mila (su 2 milioni e mezzo) i detenuti per aver scherzato sul partito o su Stalin.
Terrore
Le “purghe” staliniane travolsero tutti: l’intera vecchia guardia rivoluzionaria (eroi della guerra civile, cortigiani caduti in disgrazia e relative mogli), l’esercito (più di metà degli ufficiali furono fucilati entro il 1939), artisti, medici (inclusi quelli di Stalin, avvelenatori potenziali), polacchi ed ebrei, ingegneri e scienziati (presunti sabotatori).
A fare il lavoro sporco fu, dal 1936, Nikolaj Ežov, ministro dell’Interno e torturatore-capo della polizia segreta. Nonostante l’onorato servizio (una volta si presentò a una riunione con macchie di sangue sulla camicia) fu a sua volta epurato nel 1939: confessò di essere una spia al servizio di Inghilterra, Giappone e Polonia. La mattanza del 1935-40 (oltre 700mila persone) fu addebitata ai suoi eccessi. «Ma il 16 gennaio 1940 Stalin firmò altre 346 condanne a morte, gli ultimi resti del Grande Terrore», precisa Montefiore.
Uscito di scena Ežov, si mise al lavoro Lavrentij Berija, rampante georgiano (un sadico oggi accusato di stupri seriali) che servì il suo padrone finché questi morì per un ictus, nel 1953. «Si è recentemente ipotizzato che Berija possa aver corretto il vino di Stalin con un farmaco per provocare un colpo apoplettico», racconta Simon Sebag Montefiore. Ma ad assistere a quell’agonia c’erano altri sopravvissuti alle epurazioni. Come il giovane Nikita Kruscëv: fu coinvolto nella morte del compagno Koba? Di certo, a cadavere ancora caldo fu lui a puntare il dito contro Berija, che entro la fine dell’anno fu giustiziato come capro espiatorio.
Ritorno di fiamma
Secondo lo Strassler center for genocide studies della Clark university (Usa), la dittatura di Stalin fece oltre 20 milioni di morti, tra purghe,Gulag e carestie da collettivizzazione. È stato messo in dubbio che, isolato nella sua reggia, lo “zar rosso” fosse responsabile in prima persona di ciò che accadeva nell’impero. Ma dagli archivi è spuntata più di una prova a suo carico. Per esempio un appunto datato 3 maggio 1933: “Permettere le deportazioni: Ucraina 145.000, Caucaso Settentrionale 71.000, Basso Volga 50.000 (un mucchio!), Bielorussia 42.000 […]”. Il totale della lista è di 418mila deportati. «Nessun altro dittatore supervisionò così da vicino il lavoro della sua polizia segreta», commenta Montefiore. Irina però non gli crederebbe, sicura della buona fede del compagno Stalin. Anche per questo lo zar Koba, nella Russia dello zar Putin, è tornato così popolare.
La famiglia (decimata) del capo
KEKE GELADZE, la madre
Non lasciò mai la Georgia e morì nel 1937 dopo aver ricevuto solo tre visite dal figlio.
JAKOV DŽUGAŠVIL, figlio di Stalin
e della prima moglie Kato Svanidze (morta nel 1907). Morì prigioniero dei tedeschi nel 1943. Dopo un suicidio fallito, Stalin avrebbe detto: “Non sa nemmeno spararsi”.
NADJA ALLILUEVA, seconda moglie
Afflitta da crisi depressive, morì suicida a 31 anni, nel 1932.
VASILIJ STALIN, primogenito di Stalin e Nadja
Generale, morì alcolizzato nel 1962, a 42 anni.
SVETLANA ALLILUEVA STALIN (Lana Peters). Figlia prediletta
emigrò negli Usa nel 1966 prendendo la cittadinanza statunitense e sposando l’americanoWilliam Peters. È vissuta nelWisconsin ed è morta nel 2011.
ARTËM SERGEEV, figlio adottivo
Fece carriera nell’Armata Rossa. È vissuto in Russia ed è morto nel 2008.
OLGA ALLILUEVA, madre di Nadja
Detta“la nonna”, continuò a vivere al Cremlino e morì nel 1951.
EVGENIJA ALLILUEVA, sorella di Nadja
Condannata nel 1948 a 10 anni per spionaggio, tentò il suicidio in carcere. Riabilitata dopo la morte del dittatore.
PAVEL ALLILUEV, fratello di Nadja
Secondo alcuni fatto assassinare da Stalin nel 1938.
KIRA ALLILUEVA, figlia di Evgenija
Condannata nel 1948 a 5 anni per spionaggio. Riabilitata dopo la morte di Stalin.
ANNA ALLILUEVA, sorella di Nadja
Condannata nel 1948 a 5 anni per spionaggio. Riabilitata dopo la morte di Stalin.
STANISLAV REDENS, marito di Anna Allilueva
Fucilato nel 1940 e riabilitato nel 1961.
ALEKSANDR SVANIDZE, fratello della prima moglie di Stalin
Fucilato nel 1941, poi riabilitato.
Gli “allievi” di Koba
L’idea di modellare la società con la coercizione non è rimasta confinata alla Russia sovietica. Lo stesso fece Mao, uscito vittorioso dalla guerra contro i nazionalisti di Chang Kai-Shek (altro dittatore ma di segno politico opposto). La sua dittatura si affermò nel 1958-60, un decennio dopo la nascita della Cina popolare, con il Grande balzo in avanti che avrebbe dovuto garantire lo sviluppo della società e dell’economia cinesi. Come la collettivizzazione forzata in Urss, favorì una carestia che decimòla popolazione. La Rivoluzione culturale lanciata nel 1966 e chiusa 10 anni dopo dalla morte di Mao fu invece l’equivalente cinese del Terrore staliniano: un periodo di processi politici affidato alle giovani Guardie rosse, il cui compito era individuare e punire in modo esemplare i nemici del popolo. Cioè i nemici politici di Mao. Come in Urss, i suoi eredi attribuirono le efferatezze ai collaboratori del leader: la moglie di Mao e la cosiddetta Banda dei quattro.
Prolifici
La proliferazione delle dittature “rosse” (cui corrispondevano quelle “nere” sostenute dagli Stati Uniti attraverso la Cia) accelerò dopo il 1945. Gli Stati-satellite dell’Urss importarono da Mosca forme di governo e tecniche di polizia, con una gamma di varianti: dalla dittatura militare in Polonia al regime personale di Ceauşescu. Negli anni della Guerra fredda prese una piega totalitaria anche la rivoluzione cubana che nel 1959 aveva rovesciato il regime filoamericano di Fulgencio Batista.
Genocidio
Ma il più spietato di tutti i “nipotini” di Stalin fu il cambogiano Pol Pot. Preso il potere nel 1976 alla testa dei Khmer rossi, volle rinnovare il Paese liquidando fisicamente non solo un’intera fetta della società (borghesi e intellettuali), ma anche un’intera generazione, quella nata prima della rivoluzione: un “genocidio sociale” che costò circa un milione e mezzo di vite e interrotto solo dalla caduta del regime dopo la sconfitta nella guerra contro il Vietnam, nel 1979.
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