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CARLO LEVI, TRA PITTURA E IMPEGNO

Il realismo esistenziale dell’artista e scrittore emerge nei ritratti di amici e famigliari esposti alla Fondazione Ragghianti

Laureato in Medicina (medico a metà, che smetterà di esercitare nel confino in Basilicata, sentendosi un poco sciamano), fratello di Luisa, prima neurologa-donna laureata a Torino, pittore “dentro” e autodidatta, pur nel solco gobettiano di Casorati, poi importante scrittore “di confino” (la bella definizione è di Franco La Polla). Antifascista e resistente, giornalista e saggista, vicino e promotore dell’esperienza fallimentare di Giustizia e Libertà (di cui crea il logo), Carlo Levi (1902-1975) in tarda età avrebbe aderito, come senatore indipendente della Sinistra, alle sorti della disastrata Italia. Non un uomo di partito, dunque, ma vitalissimo e plurale “animatore”. Parola di Carlo Ludovico Ragghianti, che nella intelligente e capillare mostra, voluta dal direttore della Fondazione Ragghianti di Lucca Paolo Bolpagni, ritorna a questa costellata amicizia, di lunga e fedele “consonanza” d’intenti e passioni anche politiche. «Sodalizio mai interrotto», come concorda la curatrice della mostra, Daniela Fondi, della Fondazione Levi, insieme ad Antonella Lavorgna, con ottimi profili biografici di Francesco Tetro.

ACUTA “TORRENZIALITÀ”

A partire dalle due foto “parlanti” degli anni Quaranta che aprono la mostra. Ragghianti come sempre appartato, pensoso, pronto all’attacco, con le mani conserte, da bravo allievo saputo, oppure ai fianchi, belligeranti. Invece Levi, il dionisiaco, eccolo scamiciato (i suoi camicioni sgargianti) da gioviale arringatore, non però tribunizio. Il gesto della curiosità sempre all’erta, proteggendosi dal sole, e il sospetto di sandali da frate, ai piedi: consonanza con le sue frequentazioni contadine. Due atteggiamenti dissimili, da ricomporre, con varie gradazioni. Nel 1936, alla Galleria della Cometa, propiziata dalla nobile ma geniale Mimì Pecci Blunt e condotta da Corrado Cagli e dal poeta Libero de Libero, è stato necessario scomodare il ministro degli Interni per esporre un pittore “esagitato” e sgradito al potere come Levi. Che è stato in carcere, per motivi politici (indegna delazione di Pitigrilli, lo scrittore finto-sulfureo e piccante). All’inizio, su Leonardo, Ragghianti dedica alla mostra della Cometa qualche postilla “affilata”. «Ancora gravano troppo, nella sua nuova pennellata torrentizia…». Poi diventano amici: ma nella sua militanza, spesso acre e “malmostosa”, Ragghianti non dimenticherà mai questa definizione di “torrenzialità”, che pure è assai acuta e trainante. Per traghettare la sua pittura, originariamente di Realismo magico e glassata tipo Nuova oggettività, sino alla sua vinosa e fumigante “pennellata straripante di vitalità”. Che raggiungerà una mai doma fame di realismo esistenziale: interrogativo. Quasi espressionista.

ECHI E CONFRONTI

Certo le sue “fughe” per motivi politici a Parigi, sui passi perigliosi dei fratelli Rosselli, timbrano la sua colta pittura di nuovi confronti. Se la “veduta” famigliare, tutta casoratiana, delle donne di casa, con il foglio vuoto, ma denso di futuro, della tela ancora spoglia, il tema del raddoppiamento del quadro nel quadro, l’iconografia biblica della lettura vegliata, ha certo qualcosa di incantamento, di ipnotico. Invece l’influenza del Doganiere Rousseau nelle vedute parigine, dei guanti magici alla De Pisis, di Derain nel “Ritratto del padre”, psicologicamente impellente, la frequentazione degli artisti déracinés slavi, come Soutine e Jules Pascin (via Marie Laurencin, la musa di Apollinaire), portano Levi a scegliere una pittura emotivamente centrata su paesaggi intricati, ritratti (e nudi) di persone coinvolte nella sua vita, volti per lui “frementi e fragranti”. Fuggiasco a Firenze, nella casa di Anna Maria Ichino (che gli fa conoscere molti intellettuali, tra cui lo storico dell’arte Matteo Marangoni, quello del Saper vedere, Gadda e poi Montale, che, pigionante in casa Marangoni, “ruba” la mitica Mosca, che tra l’altro era la zia di Natalia Ginzburg. Bobi Bazlen, l’ammiratore di Svevo, poi all’esordio dell’Adelphi. E il poeta Umberto Saba, con la figlia Linuccia), via via, in vari ostelli segreti, concepisce il Cristo si è fermato a Eboli, che in francese sarà tradotto dalla figlia, mai conosciuta, di Modigliani: Jeanne. Che poi sposerà il fratello di Natalia, moglie di Leone Ginzburg: uno del grandi amici della casa editrice Einaudi (lo rivela il ritratto, sinuoso e confidente, affacciato all’emozione della guerra. Come se gli interrogatori polizieschi avessero lasciato il posto all’intimità sanguigna, fraterna: cospiratoria). Autoritratti, che accostano Modigliani a Matisse (conosciuto grazie a Lionello Venturi, all’epoca del “Sei di Torino”), e nudi contorti nel sonno, quasi a presagire i cadaveri dei campi di concentramento, come spoglie alla Music. Poi le sue donne: Vitia Gourevitch, musa parigina (legata a Venturi), la Ichino, Linuccia, Paola, sorella di Natalia, poi moglie di Adriano Olivetti, poi compagna dello scrittore-psichiatra Mario Tobino.

INFINE IL CINEMA

Amico di Pier Paolo Pasolini ai suoi esordi, egli disegna per Garzanti la copertina di Ragazzi di vita. Come Ragghianti, preso dal cinema, prima come sceneggiatore (grazie a Soldati, Gualino ed Emilio Cecchi), poi come scenografo, cura le scene di un film perduto, su Pietro Micca, che ricorda i bozzetti-monotipo di Marcel Vertès (zio di Lila De Nobili). Poi il film, da telefoni bianchi, Patatrac, dove mette in luce la sua vena di razionalismo, alla Terragni. Non a caso c’è di mezzo, oltre a Italo Cremona, anche Carlo Mollino (non Aldo, come da trascrizione sbagliata). Di qui l’irruzione di qualcosa di surreale, anche nella sua satira politica, ricorda curiosamente Maccari e Savinio. Come dal quadro estremo, che sembra un aggallante autoritratto-polena felliniana, da Poseidone stracco.

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