
COME INCANTAVANO LE FOLLE
Ai dittatori non servono CAPACITÀ particolari. Più importante è SEMBRARE l’uomo giusto al momento GIUSTO
Parte II
Perché proprio lui? Perché a un certo punto della Storia un uomo solo prende il potere e lo esercita in modo dispotico e senza controllo? Generazioni di psicoanalisti hanno scavato nelle biografie di Hitler, Stalin e Mussolini alla ricerca di segni premonitori o di psicopatie sfuggite alla diagnosi. Niente da fare. L’unico tratto della personalità che sembra accomunare i grandi dittatori del Novecento non ha nulla di patologico: è la capacità di comunicare. Tutti erano brillanti oratori, esprimevano punti di vista privi di sfumature e prospettavano soluzioni semplici ai problemi complessi della società.
Il che riporta a una conclusione ovvia: cercare di comprendere la nascita dei regimi totalitari concentrandosi sulla personalità del dittatore non è solo sterile, ma anche fuorviante. Riconoscere un tiranno come folle o deviato e attribuirgli la piena responsabilità di ciò che è accaduto fa comodo: è il classico capro espiatorio che mette tutti tranquilli, avvertonoi psicoanalisti. In realtà il dittatore è solo la punta dell’iceberg, il portavoce di un sentire comune: tra il dittatore e il suo popolo esiste un rapporto di reciprocità, per cui la follia dell’uno si trasferisce all’altro, e viceversa. Perfino durante le loro esternazioni più deliranti e le loro azioni più aberranti, i dittatori sono stati voluti, amati e sostenuti. Come mai?
Il più malato
Una prima riflessione può venire dagli studi di Wilfred Bion, psicoanalista britannico che ha approfondito le dinamiche di gruppo. Secondo Bion un gruppo in difficoltà – come poteva esserlo un popolo traumatizzato dalla guerra e in balia della crisi economica – tende a scegliere spontaneamente come leader il suo membro più “malato”. Non punta cioè sulle persone più intelligenti o capaci, ma su quelle più estreme, determinate e, perché no, bizzarre, in grado di concepire le idee più audaci e di metterle in pratica. In sostanza, serve qualcuno disposto a “fare il lavoro sporco”.
Il dittatore, insomma, non ha nulla di straordinario, e tanto meno di geniale, è semplicemente l’uomo giusto al momento giusto, colui che sa incarnare i desideri e le aspirazioni segrete del suo popolo. Mussolini si presentava come “l’uomo della provvidenza”, Hitler come “l’uomo mandato dal destino”. Entrambi intercettarono gli umori dei connazionali e conquistarono il potere cavalcando lo scontento e l’orgoglio ferito del loro popolo e presentando un progetto ottimista di rinascita. Walter Langer, psicanalista americano che nel 1943 ricevette l’incarico di redigere uno studio sulla personalità di Adolf Hitler, rilevò che quell’ometto coi baffetti e l’aria un po’ spiritata, agli inizi della sua carriera, fu ridicolizzato dagli intellettuali, convinti che non potesse durare a lungo. Anche chi aveva gli strumenti per capire, cioè, sottovalutò il suo potenziale.
Del resto erano ancora inesplorati gli effetti dei nuovi mezzi di comunicazione disponibili per la propaganda: dagli affreschi nelle chiese e dalle statue nelle piazze si era passati alla radio e al cinema, che permettevano di comunicare in modo diretto al popolo intero. Come ha fatto notare la filosofa tedesca Hannah Arendt “tipicamente i dittatori fanno leva su quella parte della società che non va alle urne, che non era mai apparsa sulla scena politica”. La “massa”, in effetti, era un interlocutore nuovo e immaturo, che agiva e ragionava come un unico individuo. Un individuo un po’ “stupido”.
L’uomo massa
“Senatores boni viri, senatus mala bestia”, dicevano gli antichi Romani. Se i senatori presi singolarmente sono brave persone, il Senato nel suo insieme è una “brutta bestia”. Perché? Il contagio emotivo degli altri diminuisce le capacità critiche e deresponsabilizza, tanto che ciascuno di noi, all’interno di un gruppo, diventa più facilmente preda degli istinti: basta vedere che cosa avviene negli stadi tutte le domeniche. Se ne rese conto anche il pensatore francese Gustav Le Bon, che nel 1895 diede alle stampe Psicologia delle folle, libro che divenne presto un testo sacro per gli aspiranti dittatori. A leggere Le Bon furono senz’altro Hitler, Stalin e Mussolini (che dichiarò di essere un suo ammiratore), molto probabilmente anche Franco.
Secondo l’analisi di Le Bon (che aveva ben presente gli eccessi di violenza raggiunti dalle folle durante la Rivoluzione francese) la massa è più “primordiale” dell’individuo, ragiona più con la pancia che con la testa, si fa guidare dalle emozioni più che dal pensiero critico. Su queste basi, Le Bon concludeva che le società democratiche sarebbero state inevitabilmente caratterizzate dalla mediocrità. Proprio perché la massa tende, per sua natura, alla regressione, meglio venga controllata e guidata da un’unica persona che conservi una forte individualità. Ecco perché, secondo Le Bon, le folle preferiscono i tiranni ai capi bonari: vogliono una figura autoritaria in grado di incutere timore ma anche rispetto, a cui delegare ogni responsabilità.
Il peso della libertà
Sembra che i dittatori abbiano fatto tesoro delle teorie (oggi controverse) di Le Bon. Hitler scrisse nel Mein Kampf: “Le masse non sanno cosa farsene della libertà e, dovendone portare il peso, si sentono come abbandonate. Esse ammirano solo la forza, la brutalità, sono disposte a sottomettersi”. Stalin era dello stesso parere: “La libertà? Solo gli illusi e i forti vivono in questa fede. Ma l’umanità è debole e ha bisogno di pane e autorità”.
Sempre Hannah Arendt osservava che “i regimi totalitari erano caratterizzati da pochi programmi concreti e da una continua esortazione all’obbedienza”. Al culmine del potere Hitler si rifiutava di parlare del proprio programma politico (senza abolirlo ufficialmente). Idem Stalin, che continuò a svuotare la dottrina marxista di contenuto, adottando comportamenti che la contraddivano apertamente. Mussolini, con la filosofia dell’attivismo, rimetteva tutto al momento storico e “se ne fregava” dei programmi, inutili pezzi di carta.
Altro concetto continuamente ribadito era l’infallibilità del capo (in Italia:“Il duce ha sempre ragione!”), che ne aumentava il potere di condizionamento e permetteva di giustificare ogni incoerenza: i dittatori potevano cambiare radicalmente idea, fino a rinnegare ciò che essi stessi avevano orgogliosamente affermato in precedenza.
Odio e amore
Un espediente adottato per rinforzare la coesione della folla era la creazione, e nella maniera più netta possibile, di un nemico. Hitler arrivò a convincere tutti che gli ebrei fossero i nemici naturali degli “ariani” (un concetto scientificamente privo di senso, ma l’uso strumentale della scienza è un’altra caratteristica delle dittature). Stalin epurò il partito comunista dai potenziali rivali (compresi amici e parenti) accusandoli di essere “nemici del popolo” e di cospirare contro di lui. D’altra parte il timore di essere colpito alle spalle è tipico dei tiranni. Cicerone raccontava comeDionisio, tiranno di Siracusa, “per la sua ingiusta sete di potere si era rinchiuso in prigione da sé. Anzi, per non affidare il collo a un barbiere, insegnò alle proprie figlie a radere. E tuttavia, quando ormai erano adulte, allontanò il ferro da queste, e stabilì che gli bruciassero barba e capelli con gusci di noce ardenti”.
Ma il rapporto che lega folla e dittatore è prima di tutto un rapporto d’amore. Secondo Sigmund Freud il tiranno è un surrogato della figura paterna ideale, temuta ma da cui ci si sente protetti. Janine Chasseguet-Smirgel, psicoanalista francese, va oltre: più che quella del padre autoritario, il dittatore evoca la figura – ben più potente – della madre possessiva. Hitler creava un clima di “fusione” con il suo popolo promuovendo il richiamo mistico e primitivo del sangue e della terra (Blut und Boden). Lo stesso effetto sortivano la disciplina, la marcia allo stesso ritmo, la divisa uguale per tutti, un simbolo e un saluto con cui identificarsi. Il senso di simbiosi permette ai pensieri di circolare, di contagiarsi reciprocamente, di avere una maggior efficacia. Il meccanismo biologico alla base è oggi ben noto e si chiama “neuroni specchio”: è la naturale tendenza a imitare e a riflettersi negli altri. L’evoluzione l’ha favorito, perché permette di imparare a stare al mondo, di integrarsi nel nucleo sociale e perfino di amare. E i dittatori più forti sono soprattutto amati.
Così parlavano
Ecco le“regole”per un eloquio convincente, desunte dall’analisi dei discorsi dei grandi dittatori.
Far leva sui sentimenti più che sulla ragione: meglio la passione della coerenza. La parola“amore”del resto fu molto usata nelle dittature (Mussolini: “Vorrei che un giorno gli italiani sapessero ricordare che li ho soprattutto amati”).
Infondere speranze religiose, politiche e sociali: il bisogno di credere è una forza arcaica dell’uomo.
Tenere fede alle tradizioni dei padri. Le folle sono conservatrici e temono le novità.
Creare una fede incondizionata nel capo , in quanto essere infallibile: “Il duce ha sempre ragione!”.
Fornire di sé un’immagine vincente, sicura di sé. L’apparenza è più importante della sostanza.
Ricorrere ai miti, che hanno una forza persuasiva maggiore perché muovono l’inconscio ed evitano il confronto con la realtà. Hitler fece appello al mito della razza ariana, Mussolini a quello della romanità imperiale.
Falsificare la realtà in modo funzionale al regime, fino a rendere impossibile distinguere il vero dal falso. Nei suoi discorsi Stalin diffondeva idee (false) di congiure contro la rivoluzione che invitavano alla delazione. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, teorizzava che “qualsiasi bugia, se ripetuta spesso, si trasformerà gradualmente in verità”.
Suscitare partecipazione e spronare all’emulazione.Hitler diceva: “Agisci in modo che se il Führer ti vedesse approverebbe la tua azione”.
Usare spesso la parola “popolo” . Si elimina così il senso di individualità implicito in espressioni come “i cittadini” o“le persone”.
Usare slogan , assiomi, affermazioni argute che esprimano certezze, non deduzioni. Celebri gli slogan fascisti: “Marciare per non marcire!”, “Boia chi molla!”.
Ripetere gli stessi concetti: “La propaganda efficace deve limitarsi a poche parole d’ordine martellate ininterrottamente”, scriveva Hitler.
Fare uso di predizioni e profezie per fare leva sull’aspirazione umana a un mondo in cui tutto sia comprensibile, chiaro, prevedibile.
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