
COSÌ HITLER CONCUISTO LE FOLLE E IL POTERE
Oggi sembra impossibile che quest’uomo abbia “convinto” studiata per fare effetto sulle masse, allettate da false promesse di gloria
Ai più, Adolf Hitler (1889-1945) oggi appare come un folle spietato e sanguinario, uno psicopatico paranoico in preda alle sue ossessioni. Sembra assurdo che milioni di persone si siano lasciate affascinare da lui che ricorda più una caricatura, che un autorevole capo di stato. Eppure proprio lui sviluppò e perfezionò uno stile comunicativo estremamente efficace, che contribuì in maniera significativa al successo del nazismo.
Spiccate doti oratorie
In pochi sanno che non fu il futuro Führer a fondare il Partito Nazista, ma che questi si inserì all’interno di un partito già esistente, il Partito Tedesco dei Lavoratori (DAP) fondato e guidato da Anton Drexler (1884-1942), un agitatore populista e antisemita che ne diventò il primo presidente. Nonostante il giovane Hitler fosse solo uno dei membri del partito e non ricoprisse ruoli dirigenziali, le sue capacità oratorie lo fecero subito notare da Drexler che, dopo averlo ascoltato discutere abilmente con un professore universitario, lo nominò responsabile della propaganda del partito. In meno di due anni Adolf Hitler si conquistò l’ammirazione di tutti gli aderenti al DAP, scalzò Drexler e cambiò il nome della formazione politica, trasformandolo in Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori.
Come rivolgersi alle masse
Giunto al potere, Hitler alimentò il consenso sfruttando i consueti messaggi demagogici, volutamente falsi o contraddittori volti a conquistare il favore delle masse o a scatenare la loro ira nei confronti di capri espiatori ben precisi (di solito gli ebrei e i comunisti). Il discorso politico, pertanto, diventò un concentrato di falsità, orchestrate ad arte e ripetute insistentemente su ogni mezzo di comunicazione; lo stesso Hitler chiarì gli scopi della propria abile propaganda demagogica: «Le masse capiscono a fatica e lentamente, mentre dimenticano con facilità. Pertanto la propaganda efficace deve limitarsi a poche parole d’ordine martellate ininterrottamente finché entrino in quelle teste e vi si fissino saldamente. Si è parlato bene quando anche il meno recettivo ha capito e ha imparato».
La svastica, l’aquila e la bandiera rossa: ecco i principali simboli che il Führer scelse per comunicare il nazismo
La comunicazione di Hitler si basò anche su diversi simboli che, ripetuti all’infinito negli spazi pubblici, diventarono riferimenti ideologici chiari e precisi: guardando quelle immagini, alla mente dei cittadini tedeschi venivano infatti subito richiamati i messaggi del Führer. Tra i simboli più noti c’era la croce uncinata, più comunemente definita “svastica”, uno dei simboli più antichi della storia umana, utilizzato come ornamento da quasi tutti i popoli antichi: Sumeri, Cinesi, Etruschi, Greci, Romani, Indiani.
Probabilmente associata al culto del sole (i bracci della croce ne richiamano i raggi), doveva avere un significato positivo e propiziatorio; è presente anche in ambito religioso nell’induismo, nel giainismo e nel buddismo. Hitler la vide per la prima volta durante l’infanzia osservando un’incisione nel monastero benedettino di Lambach e solo molti anni dopo ne fece il principale simbolo nazista.
Oltre alla svastica, Hitler elesse come emblema del Terzo Reich l’aquila. Anche questo non è un simbolo prettamente nazista: l’aquila veniva usata già dagli antichi Romani per indicare il potere imperiale, divenne poi il simbolo del Sacro Romano Impero ed è ancora oggi presente nello stemma degli Stati Uniti d’America. Fin dai tempi più remoti, infatti, le caratteristiche fisiche e predatorie di questo rapace lo rendono l’immagine per antonomasia della forza, dell’altezza, dalla virilità, del potere e della sovranità. Hitler riprese quindi l’antico simbolo imperiale e lo modificò, inserendo tra gli artigli dell’uccello l’immagine di una corona di quercia con una svastica in mezzo.
Infine il Führer scelse personalmente il colore della nuova bandiera tedesca – rosso – spiegandone i motivi nel Mein Kampf, il testo scritto in prigione nel 1923: «Abbiamo scelto, dopo attenta e oculata riflessione, il colore rosso per i nostri manifesti: per aizzare alla violenza i partiti di sinistra, per spingerne i loro adepti a venire alle nostre assemblee, magari soltanto per ostacolarle. Nel rosso riconosciamo l’idea sociale del movimento, nel bianco l’idea nazionalista, nella croce uncinata l’impegno a combattere per l’affermazione dell’uomo ariano e per il diffondersi della tendenza al lavoro creativo, che fu e sarà sempre antisemitico».
Da dove vengono i termini “demagogia” e “propaganda”?
Il termine demagogia deriva dall’unione delle parole greche demos, cioè “popolo”, e ago, verbo che significa “condurre, trascinare”: il significato letterale, dunque, indica il comportamento di colui che trascina e persuade le masse popolari e ha un’accezione neutra. Anche la parola propaganda non nasce con un significato esplicitamente negativo; il termine risale al Seicento e alla creazione da parte della Chiesa Cattolica della Congregatio de propaganda fide, un dipartimento della Curia che aveva come compito specifico quello di occuparsi della diffusione della religione cattolica per contrastare il diffondersi del protestantesimo in seguito alla riforma protestante. Il sostantivo è la forma gerundiva del verbo latino propagor, che significa appunto “diffondere, trasmettere” e inizia ad avere una connotazione fortemente negativa sul finire del XIX secolo. Nel Novecento, con l’avvento dei totalitarismi in Europa, propaganda e demagogia diventano strumenti politici fondamentali dei leader autoritari per conquistare e conservare il potere.
Slogan, pause a effetto, gesti plateali, voce imperiosa: le armi del Duce
Benito Mussolini (1883-1945) è ricordato per aver governato l’Italia dal 1922 fino al 1943 in modo dittatoriale e per essere stato a capo dello statofantoccio della Repubblica di Salò. Tuttavia fu anche un esperto comunicatore e un profondo conoscitore delle dinamiche emotive e psicologiche che si instaurano tra il leader e la folla. Buona parte delle sue competenze derivarono dalla carriera giornalistica intrapresa nei primi anni del Novecento, prima in Svizzera e poi in Italia, nei periodici socialisti La lima, Pagine libere, Il popolo, Soffitta. Fu anche direttore de L’Avanti!, organo ufficiale del partito. Fu la propaganda giornalistica a farlo conoscere al grande pubblico: dalle pagine de Il Popolo d’Italia, il giornale fondato dopo la rottura con il Partito Socialista, Mussolini tuonò a favore dell’intervento in guerra e conquistò grande notorietà in tutto il Paese. Il duce studiò meticolosamente anche gli scritti di Gustave Le Bon, in particolare Psicologia delle folle del 1895, che definì “un’opera capitale”. Di qui trasse molti insegnamenti utilizzati durante il Ventennio fascista.
I suoi discorsi, formati da frasi brevi e concise, spesso ripetute più volte per risultare più incisive, erano colmi di retorica, frasi fatte, slogan semplici entrati nella memoria collettiva degli italiani (“Credere, obbedire, combattere”, “Vincere e vinceremo”, “A noi!”, “Roma doma”), lusinghe dirette agli ascoltatori e accese minacce contro i capri espiatori del momento. Anche la mimica, la gestualità e i toni di voce accentuavano i messaggi che il Duce voleva trasmettere; Mussolini parlava con lunghe pause a effetto tra una parola e l’altra, accompagnando il discorso con improvvisi rialzi dell’intensità della voce e imperiosi gesti delle mani e delle braccia. Benché ascoltando oggi le registrazioni dei suoi discorsi lo stile oratoriale ci appaia quasi ridicolo, all’epoca le folle ne erano conquistate al punto da osannarlo e venerarlo. Tale era l’importanza che Mussolini attribuiva alla comunicazione da creare nel 1935 un ministero apposito, il Ministero per la stampa e la propaganda, poi trasformato nel 1937 in Ministero per la cultura popolare.
STALIN NON ERA COSÌ DIVERSO
Benché Stalin non seguisse le teorie psicologiche sulla comunicazione di massa, anche in Unione Sovietica la propaganda rivestiva un ruolo significativo: propaganda, censura e repressione, infatti, sono i tre pilastri su cui si basano le dittature e la Russia comunista non fece eccezione. Stalin stimolò un culto della personalità che lo portò a essere l’uomo più temuto (e più amato) del Paese: la propaganda, oltre a rappresentarlo alto e imponente (in realtà misurava poco più di 1.60 m), diffondeva l’immagine di un padre buono che ha a cuore il benessere dei suoi figli. Così Stalin sostituì i sacerdoti ortodossi (pope), la cui attività era stata vietata dalla dittatura.