
DI PADRE IN FIGLIO, L’ARTE MI PIGLIO
Beniamino Zappia, Gioacchino Campolo, Nicola Schiavone, Ernesto Diotallevi, Felice Maniero, Francesco Messina Denaro, “don ciccio”, e il figlio Matteo, latitante dal 1993, sono solo alcuni nomi della criminalità organizzata, che possedevano arte assai spesso rubata. Un “gioco” antico che pare inarrestabile. Diversi capolavori sono stati recuperati ma c’è ancora molto da fare e da indagare
Da tempo studiosi e investigatori indagano sui rapporti tra i furti d’arte e le “onorate società”. Benché se ne siano perdute le tracce dal lontano 1969, si ricerca ancora la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio, sparita dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo. C’è qualche certezza sui boss che potrebbero averla detenuta e sulla possibilità, forse, di trovarla ancora integra: infatti, molteplici sono, tra i mafiosi pentiti, le affermazioni al riguardo, anche se contraddittorie. Si cerca poi di capire come mai parecchi esponenti della criminalità organizzata detenessero decine e decine di opere. Per citarne soltanto qualcuno, Beniamino Zappia, in carcere dal 2007 perché considerato il collegamento a Milano tra alcune cosche delle due Americhe e in contatto anche con Vittorio Mangano, lo “stalliere” di Silvio Berlusconi ad Arcore, possedeva trecentoquarantacinque tele e grafiche di famosi maestri. Centosette quadri aveva invece il “re dei videopoker” Gioacchino Campolo; una decina di contemporanei Nicola Schiavone, il figlio del capo dei “Casalesi” campani tanto ben raccontati da Roberto Saviano; e nelle quattordici stanze dell’appartamento davanti alla Fontana di Trevi, Ernesto Diotallevi, ex boss della banda della Magliana anche processato, e assolto, per la morte del banchiere Roberto Calvi nel 1982 sotto il ponte dei Frati neri sul Tamigi, a Londra, ne allineava invece ventisette. Il suo preferito era Mario Schifano, mentre Massimo Carminati, già dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, combattente nel Libano e per il quale è stata coniata, a torto o a ragione, la dizione «mafia Capitale», predilegeva Mimmo Rotella e, in casa, deteneva sessantanove dipinti.
Ma ancora: il rapinatore Felice Maniero detto “Faccia d’angelo”, il capo della “mala del Brenta”, ha usato l’arte come ricatto. Rubava opere, anche dalla Galleria estense di Modena, o dalla basilica di San Marco a Venezia (una collana di diamanti e pietre preziose dall’icona della Madonna Nicopeia); e reliquie (come il mento di sant’Antonio da Padova, custodito nella basilica della città veneta). Capolavori che poi permutava in agevolazioni, anche carcerarie, da parte dello Stato.
Né si possono scordare gli attentati mafiosi del 1993 ai beni artistici di Firenze (gli Uffizi), Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (il Padiglione d’arte contemporanea). E chissà se è soltanto per un caso che due Van Gogh rubati nel 2002 ad Amsterdam, dal museo dedicato all’artista forse più famoso al mondo (Spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta del 1882 e Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen di due anni dopo), siano finiti nelle mani di Raffaele Imperiale, di recente arrestato a Dubai, un “mammasantissima” della camorra, prima di essere ritrovati, a quattordici anni dal furto, in una sua base a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli. Perché i sentieri che legano l’arte indebitamente sottratta ai maggiori esponenti della criminalità non sono certamente sporadici, né tanto meno recenti.
Compiamo un salto indietro nel tempo, fino al 1962: a Castelvetrano (Trapani), l’antica Selinunte, dall’ufficio del sindaco, sparisce l’Efebo (usato, si dice, anche per appendere il cappello), una prestigiosa reliquia bronzea del 480 a.C., alta quasi un metro, e trovata da un pastorello nel 1882. Per sei anni, se ne sa molto poco: chi l’ha sottratta cerca invano di venderla; poi punta a un riscatto di trenta milioni di lire, da parte del Comune. Alla fine, “lu pupu”, come era chiamato in Sicilia, è recuperato nel 1968 a Foligno (Perugia), anche dopo una sparatoria. Fautore dell’operazione è Rodolfo Siviero, una via di mezzo tra un diplomatico e un agente segreto, già grande “cacciatore” dei tesori sottratti dai nazisti nella penisola: si era finto un ricettatore, pronto a sborsare la somma richiesta.
Dalla Sicilia, salgono in cinque per la trattativa; al momento più opportuno, spuntano i mitra dei poliziotti. A ordinare la ruberia era stato “don Ciccio”, Francesco Messina Denaro, allora a capo di una cosca siciliana. I mafiosi pentiti spiegano che con il ricavato del mestiere di tombarolo «manteneva la famiglia», s’intende in senso non anagrafico. Dell’avvenimento rimane una foto famosa: Siviero mostra il capolavoro da poco recuperato a due suoi amici, famosi nel mondo della cultura: Ranuccio Bianchi Bandinelli e Giuliano Briganti.
Anni dopo, al largo delle coste siciliane, si ripesca un altro “pezzo da novanta”, ma non della mafia, bensì dell’arte di ogni tempo: il Satiro danzante. È il 1998, e le reti del peschereccio Capitan Ciccio (ironia dei nomi e del caso) catturano una statua ellenistica greca alta due metri e mezzo e dalla foggia assolutamente inusitata. Provvisoriamente, è ricoverata nella sala del Consiglio comunale di Castelvetrano, presidiata da due vigili urbani. E qui, scatta il progetto mafioso, come lo raccontano ancora una volta i pentiti, un paio dei quali incaricati del furto. Vengono dati loro un luogo in cui dormire, dei motorini per potersi spostare, un furgone con porta laterale per effettuare il colpo. La sera, uno dei due vigilanti va a comperare una pizza, anche per il collega. L’idea dei malviventi è di sorprenderlo all’aperto e, armi spianate, impadronirsi, con l’ostaggio, del Satiro. Ma quando gli incaricati sono sul punto di passare all’azione, il vigile incontra amici per strada; così, il gruppo di «sei o sette» mafiosi, secondo Concetto Mariano che ne faceva parte, rimanda l’operazione al giorno successivo. Quando, però, la scultura non è più lì: è partita per l’Istituto centrale del restauro, a Roma. Mai un’opera di conservazione è forse stata più tempestiva di questa. L’affare mafioso sfumerà; il Satiro sarà esposto a Montecitorio; e gli verrà poi dedicato un museo a Mazara del Vallo (Trapani), dove è tuttora in mostra.
I pentiti raccontano che a incaricarli del furto era stato chi si ritiene essere l’attuale “capo dei capi” di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro: il superlatitante ricercato invano dal 1993, figlio del “don Ciccio” di cui s’è appena detto. A verbale, uno spiega che avevano già scavato una buca in cui nascondere il reperto assai pregiato: «L’indomani, l’avremmo portato in Svizzera». E di Matteo, qualcuno racconta anche d’averlo visto insieme a «un’anfora d’oro da un miliardo e mezzo di lire, che stava in Svizzera», e con «sculture antiche di cani senza la testa». Insomma, di padre in figlio l’“onorata società” è evidentemente usa anche a trasmettersi un’assai poco onorevole professione. Forse, c’è ancora parecchio da indagare.