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FORGNENGO, IL PAESE DELLE TRIPICILI CINTE

Forgnengo fa parte del comune di Campiglia Cervo (provincia di Biella, Piemonte), si trova a poco meno di mille metri di altitudine e in esso, durate tutto l’anno, vi risiedono sedici abitanti. Un luogo di grande fascino per l’ambiente e per lo sforzo di tante persone – residenti e altri che qui vi trascorrono le vacanze – di salvaguardarne la storia e le tradizioni.

Ma vi è una peculiarità che rende unico Forgnengo: su alcune delle pietre dell’abitato sono presenti molte incisioni rupestri, tra le quali prevalgono i cosiddetti “filetti”, detti anche “Triplice cinta”. Ne abbiamo contati almeno otto, accanto ad altre opere non sempre di facile interpretazione, che fanno di questa località piemontese un unicum nella complessa e a tratti misteriosa storia delle pietre incise.

Su un giornale di alcuni anni fa, vi fu chi definì Forgnengo “La Las Vegas del Biellese”: tale singolare abbinamento con la capitale del gioco, scaturì dalla locale consapevolezza che quei “filetti” fossero stati scalpellati nella pietra con finalità ludiche, cioè per essere usati per giocare appunto a “Filetto”, con regole che possiamo immaginare simili a quelle applicate usando la parte posteriore di una qualunque scacchiera.

Sull’argomento “Filetto o Triplice cinta” vi sono moltissimi studi che spaziano in vari ambiti: da quello prettamente esoterico (per esempio sono emblematici quelli di René Guénon) a quello archeologico e antropologico. In anni recenti ricordiamo le ricerche di Marisa Uberti, Carlo Gavazzi, Carlo Dionisio, Fabrizio Manticelli, che hanno esplorato ambiti diversi di questo articolato universo simbolico, ponendone in evidenza aspetti correlati a più contesti culturali e utilizzando di conseguenza strumenti e metodi di approccio opportunamente adeguati.

Nella sostanza, il Filetto/Triplice cinta è una figura che conosciamo tutti molto bene e che abbiamo visto molte volte stampata dietro la classica scacchiera per dama o scacchi. Come indicato, a Forgnengo ne troviamo numerose e quantitativamente costituiscono appunto un unicum, ma va ricordato che figure del genere sono presenti, anche in notevole quantità, in molte località del mondo; pertanto il paese del biellese acquista un particolare, valore poiché ne raccoglie numerose in uno spazio relativamente ristretto.

Le teorie che nel corso del tempo sono state formulate con la volontà di stabilire il significato del Filetto/Triplice cinta si orientano sostanzialmente in tre direzioni:

  • funzione ludica, nell’accezione di Filetto
  • funzione simbolica, correlata a significati esoterici, nell’accezione di Triplice cinta
  • funzione doppia, cioè la prima non esclude la seconda. Per saperne di più sarebbe necessario conoscere “quando” questa figura entrò a far parte dell’iconografia e in tal modo tentare di orientare le ricerche sul ruolo e significato. Si consideri che, nella prevalenza dei casi, queste figure sono incise sulla pietra, spesso in prossimità di aree antropizzate, e riferibili a periodi storici anche recenti: quindi mancando elementi archeologici che possano consentire una comparazione (altre incisioni per esempio, ma collocabili con precisione in un periodo storico preciso), la datazione è sempre alquanto problematica.

Costituiscono un elemento utile le informazioni provenienti dalla cultura locale: vi sono infatti testimonianze di persone del luogo (in genere anziani, o loro voci raccolte e documentate) che attestano l’utilizzo del Filetto a fini ludici, cui si aggiungono, come vedremo, alcune varianti.

L’analisi delle figure presenti nell’area qui descritta – anche se come detto il fenomeno non è esclusivo, ma geograficamente molto diffuso – ha consentito di isolare le seguenti figure:

  • Filetto a due o a tre quadrati concentrici
  • figure riconducibili al “Gioco dei lupi e delle pecore”
  • “Gioco dell’orso”
  • altre raffigurazioni non riconducibili a schemi (ludici?) conosciuti.

A questo punto facciamo una breve riflessione sulle principali tipologie di gioco, così come le conosciamo osservando le testimonianze note da tempi antichissimi: l’esempio più significativo è rappresentato dal “Gioco di Ur” (rinvenuto in una tomba sumera a Ur e risalente al 2500 a.C.); si passa poi ai vari giochi egizi (Cani e sciacalli; Senet; Gioco del serpente), fino al diffuso Mancala per arrivare alla scacchiera a tutti nota. Queste le tipologie:
• Cattura. Lo scopo è sottrarre pezzi all’avversario: lo si fa scavalcandoli con i propri e portandosi nella casella attigua (come nel caso della Dama), oppure portandosi nella casella da essi occupata (come negli Scacchi). La partita termina quando tutti i pezzi dell’avversario sono stati catturati, o il più importante è bloccato.
• Allineamento. Lo scopo è mettere in fila tre (o cinque) pedine: chi ci riesce o mangia una pedina avversaria (come nel Filetto); oppure vince la partita come nel gioco dei “Cerchi e croci”, detto anche “Tris”
• Immobilizzazione. Si tratta di una tipologia più rara delle precedenti: chi non riesce più a muovere i propri pezzi perché l’avversario ha occupato tutte le caselle in cui egli potrebbe spostarli, ha perso la partita. Si aggiunga che il gioco può essere simmetrico o asimmetrico: nel primo caso – caratterizzante la maggioranza dei giochi – i due avversari partono con un numero identico di pezzi e li muovono con scopi e modalità identici (come nel caso della dama e degli scacchi). Nel secondo caso un giocatore possiede pezzi che hanno le sembianze delle prede e quelli dell’altro dei predatori: i due li muovono con criteri differenti. Vi sono giochi asimmetrici che prevedono la contemporanea presenza di più categorie come, per esempio, il “Gioco dei lupi e delle pecore”: il primo mangia le seconde (cattura) e queste cercano di rinchiuderlo (immobilizzazione).

A Forgnengo troviamo numerosi Filetti/Triplice cinta in vari punti del paese: per esempio ve ne sono alcuni sul muretto antistante la chiesa parrocchiale, quindi in un luogo che si presume fosse un punto di ritrovo per la comunità.

Spettacolare la “Pietra dei tre giochi”, situata al centro del paese, che propone lo schema per il “Gioco dei lupi e delle pecore”, per il “Gioco dell’orso” e il classico Filetto. Il primo è costituito da un tavoliere a croce, con uno schema analogo a quello usato per giochi asimmetrici diffusi si in Europa che in Asia (lupi e pecore; volpe e oche; galline e volpe; ecc.). L’esempio più noto e presente in aree attigue è il “Gioco dei lupi e delle pecore”: due lupi devono mangiare venti pecore come si fa a Dama per impedir loro di ritornare all’ovile; ma se nove pecore riescono a occupare l’ovile, i lupi perdono.

Nel “Gioco dell’orso” un giocatore muove l’orso – che parte dal centro – e l’altro i tre cacciatori, che devono chiuderlo al fine di negargli ogni possibile mossa; gli spostamenti avvengono da un’intersezione all’altra. Poiché prima o poi i cacciatori riescono nel loro intento, la partita prevede due manche: nella seconda si cambiano i ruoli e vince chi nei panni dell’orso ha resistito più a lungo. Il corpus descritto, con le bilanciate comparazioni, offre interessanti sputi per quanto riguarda le implicazioni culturali delle attività ludiche. Si tratta di un ambito che è stato oggetto di vari approfondimenti antropologici in relazione alle numerosissime manifestazioni del gioco, che costituiscono un’esperienza trasversale nelle più diverse società.

Per Vladimir Jakovlevič Propp, alcuni giochi potrebbero avere le proprie radici in arcaici rituali religiosi; mentre per Johan Huizinga (Homo ludens, 1938) e Roger Caillois (I giochi e gli uomini, 1958), l’attività ludica costituisce un’importante officina socio-antropologica, nella quale è possibile studiare molteplici aspetti della cultura e delle regole condivise all’interno delle più diverse società. Per quanto concerne il volto esoterico del Filetto/Triplice cinta, l’osservazione implica un approccio che tenga conto di aspetti correlati alla tradizione, quindi valori destinati spesso a entrare in rotta di collisione con i metodi propri dell’archeologia e dell’antropologia. Emblematiche in tal senso le parole di René Guénon relativamente alla cosiddetta “Pietra druidica” di Suèvres (Loit-et-Cher): “Quale può essere il significato di queste tre cinte? Abbiamo subito pensato che dovesse trattarsi di tre gradi di iniziazione, sicché il loro insieme avrebbe rappresentato, in certo modo, la figura delle gerarchia druidica; e il fatto che la medesima figura si trovi anche altrove indicherebbe che esistevano, in altre forme tradizionali, delle gerarchie costituite sullo stesso modello, cosa questa perfettamente normale” (I simboli della scienza sacra, Milano 1975, pag. 77). Siamo al cospetto di una chiave di lettura che stride se posta davanti all’enorme quantitativo di triplici cinte presenti nel mondo; ricordiamo che un censimento universale è in corso e ha il suo referente in Marisa Uberti (https://www.centro-studitriplice-cinta.com).

Potremmo preliminarmente riprendere le tesi di Propp sulla possibile “risemantizzazione” in chiave ludica di un’antica pratica, forse rituale (?), di cui però non abbiamo documenti certi. La grande quantità di esempi, anche solo in aree ristrette – per esempio quella piemontese in cui è situato Forgnengo – ci induce due atteggiamenti: il primo è di euforia per la diffusa presenza dei modelli grafici cui qui facciamo riferimento e per le sue implicazioni antropologiche. Il secondo è però di prudenza, poiché sono numerosi i problemi epistemologici che ostacolano il cammino della ricerca.

In primis vi è la difficoltà di stabilire una datazione attendibile quando sono assenti elementi di riferimento cronologico; e poi la mancanza di correlazioni tra i filetti presenti sulle pietre e varie fonti (archivio, oralità, cultura materiale, ecc.) che consentano di porre quell’iconografia in un preciso contesto culturale. Peraltro, un problema che si presenta spesso in occasione dello studio delle relazioni tra le incisioni rupestri e la cultura autoctona.

Infatti si tratta di un patrimonio di cultura materiale di grande rilevanza: sulla base delle attuali conoscenze, provenienti dall’osservazione statistica delle incisioni documentate, è possibile constatare che la maggior parte di questi segni è collocata nei pressi di vie di transito (sentieri-mulattiere). Quindi, “prescindendo ancora una volta da ipotesi di attribuzione del significato che potrebbe suggerire una funzione di segno territoriale o di percorso, tale rapporto testimonia come minimo la persistenza nel tempo di determinate vie di comunicazione montane, e la loro notevole capillarità, vista la grande quantità di incisioni rupestri” (A. Arcà, a cura, La pietra e il segno, Susa 1990, pag. 19).

La questione assume toni ancora più problematici se si considera la difficoltà di stabilire una collocazione cronologica precisa: spesso viene usato senza la dovuta cura l’aggettivo “preistorico”; si tratta di un errore filologico grave, poiché non tutte le incisioni rupestri sono preistoriche e, soprattutto, spesso non è possibile datarle. Ciò è dovuto a una serie di motivazioni:

  • la pietra non può essere sottoposta a esami come i reperti organici
  • quanto le incisioni rupestri presentano peculiarità che potrebbero collocarle in ambito preistorico, mancano apporti di tipo archeologico (scavi, reperti, ecc.) che consentirebbero di fissare alcuni punti fermi di tipo cronologico e culturale
  • alcuni “tipi” e “segni” rinvenibili nell’arte preistorica, sono entrati a far parte dell’apparato simbolico delle culture successive, spesso senza soluzione di continuità
  • spesso le incisioni rupestri sono presenti in piccoli gruppi, prive di elementi di contesto che possono facilitarne l’interpretazione a 360 gradi.

Gli studiosi, anche con il contributo di ampie campionature, cataloghi e schedature, sono oggi nella condizione di effettuare confronti tipologici che consentono di stabilire legami e modelli, pur senza raggiungere, salvo pochi casi, una certezza assoluta.

Da sempre, relazionate al mito e alla religiosità, le incisioni rupestri sono una presenza parte integrante della cultura popolare. Quei “segni strani” hanno accompagnato l’uomo dall’alba dei tempi. Egli li ha trovati nella propria realtà, quasi sempre senza conoscerne l’origine e così spesso si ha sentito la necessità di “storicizzarli” sulla base della propria cultura.

Per una visione più ampia del bacino culturale dell’incisione rupestre è fondamentale considerare:

  • posizione rispetto al centro abitato
  • situazione geomorfologia locale
  • patrimonio mitico locale
  • livello di convivenza, nelle forme mitico-rituali locali, tra precristiano e cristiano
  • rapporti con le vie di transito
  • persistenza di motivi e temi dell’arte rupestre nella tradizione decorativa agro-pastorale.

Globalmente, il patrimonio costituito dall’arte rupestre dimostra la propria complessità epistemologica: complessità che, ancora oggi, malgrado le importanti acquisizioni dell’indagine scientifica, è oggetto di accesi dibattiti su vari fronti.

Michael Baxandall, che si riferiva al XV secolo, chiariva che nell’identificazione del significato di un’opera è necessario tener conto dell’“occhio del periodo” (M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Torino 1972).

Non dimentichiamo che le modalità dello sguardo (attività fisica) e dell’osservazione (attività culturale), artefici dell’elaborazione e delle interpretazioni, occupano un ruolo fondamentale nella cultura occidentale contemporanea, solidamente basata sull’immagine e sulla visione. In effetti senza tecnica d’osservazione, senza strategia dell’occhio, senza prammatica della facoltà visiva, il soggetto osservato non può comparire, né divenire oggetto di conoscenza.

Se proviamo, forse un po’ arbitrariamente, a trasferire le puntualizzazioni di Baxandall nell’ambito che qui ci interessa, possiamo provvisoriamente ipotizzare che per mettere a fuoco il “significato” dell’arte rupestre è necessario conoscerne le tre dimensioni basilari:

  • dimensione esegetica (cosa si crede rappresenti)
  • dimensione comportamentale (l’atteggiamento di chi vive nell’area in cui è presente l’incisione)
  • dimensione vocazionale (come quell’incisione è correlata all’ambiente).

Per certi aspetti, l’arte rupestre diventa quasi un’“opera aperta”, espressione iconografica che si concede a una molteplicità di interpretazioni, destinata, in alcuni casi, a delegittimare il significato primitivo di un segno o di un complesso di segni, avvalendosi di interpretazioni svincolate da codici e sistemi originari, ma modellati su quelli del fruitore. Solo l’attenta osservazione del contesto e la raccolta di materiali etnografici ben correlati alla cultura dell’area indagata, potranno contribuire a indirizzare verso una possibile risposta all’annosa domanda che molto spesso ci si sente rivolgere: “Cosa rappresentano quei segni?”. Domanda alla quale molto spesso non siamo nella condizione di dare una risposta precisa, ma solo di suggerire un ventaglio di ipotesi.

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