
Giganti, dalla Bibbia a Omero
Cercherò in questa sede di trattare sinteticamente la questione dei giganti nella Bibbia. I primi giganti che si incontrano nella Bibbia sono i «Nephilim», citati nella Genesi. Naphal in ebraico significa “cadere”. Quindi Nephilim potrebbe significare “coloro che cadono”, forse in senso più esteso “coloro che scendono”.
I Nephilim nei Libri di Enoch che specifica meglio l’enigmatico riferimento della Genesi, vengono detti frutto dei «bnei haelohim», «figli degli dèi» del Libro della Genesi (VII, 2, 4). L’ebraico usa l’espressione “figlio d’uomo” per indicare un uomo, per es., così come nel Nuovo Testamento si parla, in relazione al profetismo veterotestamentario, si fa menzione del “puledro figlio d’asina” per indicare un asino, ovviamente figlio di un asina, così come un uomo è figlio di un uomo. Quindi qui potrebbero essere indicati come “coloro che cadono” (scendono?) con un sinonimo in quanto incrocio tra altri “che scesero” e donne, come scrivo nel mio libro Le guerre nascoste dalla Bibbia. La confederazione dei Nove Archi (Eterne Verità edizioni 2017).
Inoltre in aramaico naphil significa “gigante”, come in ebraico anak. Nella Bibbia compaiono anche gli Anakim, termine che ricorda gli Anunnaki, raffigurati come giganti. Le due interpretazioni possibili, “alti/coloro che stanno in alto” e “coloro che cadono/scendono dal cielo/dall’alto” potrebbero non essere in contraddizione. Come scrive l’assiriologo prof. Pietro Mander, in accadico l’ideogramma sumerico an (“sopra/alto/in alto” in sumerico; An, dio del cielo sumerico, Anu(m), dio del cielo accadico) veniva usato per le parole accadiche šamê (“cielo”) e ilu(m) (l’accadico per l’ebraico el).
Per i Greci inoltre i giganteschi (cfr. Nephilim e Anakim, cfr. Anunnaki) e divini Titani sono figli del dio Urano (“cielo” in greco), parola che secondo me potrebbe venire dal Vicino Oriente come ur (“signore”) + an (“cielo”) + la desinenza greca maschile singolare -os. Per altro – e questo è una mia ipotesi formulata per la prima volta nel summenzionato saggio – per Anakim potrebbe significare “quelli (-im = pl. ebraico) del (ak in sumerico significa proprio “del” e si mette dopo il nome a cui si riferisce anziché prima come in italiano) “alto” (cielo) in sumerico.
Anakim potrebbe perciò essere cioè la traslitterazione ebraica, con adattamento grammaticale nella desinenza plurale, di un termine sumerico, e significare dunque “quelli del cielo/alto”. Dopo Nephilim e Anakim, nella Bibbia si incontra il gigante Golia, filisteo, di tutt’altra natura, secondo me, rispetto ai precedenti. Nello scavo archeologico di Gath (Tell el-Safi), è stato rinvenuto un ostrakon, datato per stratigrafia al 950 a.C. ca., su cui sono leggibili due nomi filistei, entrambi simili a quelli del biblico Golia, scritti in scrittura lineare protocananaica, il che mostra la semitizzazione dei Filistei che, ne Le guerre nascoste dalla Bibbia, mostro essere di origine cretese.
Recita il primo libro del profeta Samuele: «Dall’accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell’asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero» (XVII, 4-7); «Davide disse a Saul: “Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo”» (XVII, 32); «Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo. Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s’infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada. Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa» (XVII, 48-51).
Come ho scritto nel mio articolo dello scorso numero (febbraio 2019) di «Hera Magazine», la storia del gigante Golia, תָיְלָּג (Ğoliyāț, “passaggio”, “rivoluzione”) in ebraico, Ğālūt in arabo, sconfitto dal piccolo Davide, emblema della superiorità dell’intelligenza alla forza bruta, è nota ai più. Ciò che mi interessava ne Le guerre nascoste però era il parallelo sul tema dei giganti fra Filistei, come Golia, e Cretesi. Esaminando le principali caratteristiche del tipo antropologico dei Minoici, si osserva un’altezza da media a regolare, ma con individui anche molto alti, che potrebbero costituire l’origine del mito greco dei giganti di Creta e quello biblico del gigante Golia.
Lo storiografo ebreo romanizzato Flavio Giuseppe riferisce che Golia era alto quattro cubiti greci e un palmo, vale a dire duecentootto centimetri, un’altezza significativa ma che può benissimo appartenere all’ambito del reale, destando sicuramente stupore all’epoca. Da cui il mito. Ma a Creta, come si è visto, persone di statura anche di molto superiore alla media non mancavano.
Se quella di Golia non fosse solo un’invenzione per celebrare il futuro re Davide (ovviamente l’aspetto celebrativo e la prospettiva giudaita restano comunque elemento centrale nella narrazione), allora questo aspetto sarebbe un ennesimo elemento a sostegno dell’identificazione Minoici-Filistei, che si somma ai molti che ho riportato nel saggio. E così parrebbe essere. Infatti il neurologo dott. Vladimir Berguiner dell’Università Ben Gurion del Negev, dopo anni di studio, ha dichiarato, tramite una ricerca, che Golia soffrisse di acromegalia. Questo spiegherebbe la sua statura da gigante, considerando anche che i malati affetti da acromegalia soffrono spesso di problemi di vista: ecco come e perché, per Berguiner, Golia fu sconfitto da Davide.
Inoltre, secondo alcune ricerche recenti di neuroscienze infatti, la grandezza smisurata del corpo di Golia rispetto a quella del futuro re Davide, sarebbe stata regolata dalla secrezione dell’ormone della crescita da parte del lobo anteriore della ghiandola pituitaria. Talvolta, infatti, secondo quanto riporta la ricerca del 2010 del dott. M.F. Bear e altri scienziati, «il lobo anteriore diventa ipertrofico e produce una quantità eccessiva di ormone, che provoca dimensioni eccessive del corpo ed una notevole altezza». L’ipertrofia pituitaria provoca anche dei problemi nella visione normale. Secondo tale ricerca, pertanto, non solo si può affermare che Golia fosse così alto per una disfunzione ormonale, ma si può anche «ipotizzare che Davide riuscì ad atterrare Golia perché, quando raggiunse la linea di battaglia, il gigante non era più in grado di vederlo».
Come si è visto e come scrivo, il Popolo del Mare dei Peleset, chiamati Filistei nella Bibbia, è associato, nelle Sacre Scritture ebraiche, alla figura del gigante, Golia. Analogo accostamento si trova anche in Sicilia, isola abitata dai Popoli del Mare, cerco di dimostrare nel mio libro Shardana e Shakalasa. I Popoli del Mare (scritto con Leonardo Melis, Eterne Verità edizioni 2018), sulla quale si credeva che i giganteschi titani ruggissero ai piedi dell’Etna. A ciò si aggiungano i ciclopi in Sicilia secondo Omero, nell’Odissea (IX, 187-192). Così viene infatti ivi descritto il gigantesco ciclope Polifemo: «ἔνθα δ’ ἀνὴρ ἐνίαυε πελώριος, ὅς ῥα τὰ μῆλα / οἶος ποιμαίνεσκεν ἀπόπροθεν: οὐδὲ μετ’ ἄλλους / πωλεῖτ’, ἀλλ’ ἀπάνευθεν ἐὼν ἀθεμίστια ᾔδη. / καὶ γὰρ θαῦμ’ ἐτέτυκτο πελώριον, οὐδὲ ἐῴκει / ἀνδρί γε σιτοφάγῳ, ἀλλὰ ῥίῳ ὑλήεντι / ὑψηλῶν ὀρέων, ὅ τε φαίνεται οἶον ἀπ’ ἄλλων»; «Quivi dimorava un uomo smisurato e deforme, che, solo, pasceva separatamente le greggi, e, stando in disparte, conosceva uno stile di vita senza legge, e infatti era stato reso mostruoso alla vista e non assomigliava a un uomo che mangia pane, bensì a un massiccio selvoso d’alte vette, che appare lontano dagli altri».
Questa è la descrizione di Polifemo, fratello dell’omonimo argonauta figlio di Poseidone. In questa creatura si imbatte Odisseo (Ulisse), catturato insieme con alcuni compagni, in numero di dodici, da Polifemo. Il numero dodici ricorre nelle tradizioni di differenti culture ed è sovente associato ai compagni che seguono l’eroe, sia esso il Moreh ha-Tseddeq qumrânico, Gesù Cristo, Carlo Magno, re Artù o, in questo caso, Odisseo.
Nel brano sopra riportato, Polifemo viene descritto come un gigante, «un massiccio selvoso d’alte vette». Il suo essere «smisurato e deforme» contrasta apertamente con il concetto ellenico di καλοκαγαθία (kalokagathía), di cui è emblematico il celeberrimo canone di Policleto. L’uomo deve essere bello sia esteriormente che interiormente, e quindi retto, non in senso moralistico o post-socratico, bensì nell’accezione pre-cristiana del termine, nel senso di giusto agli occhi della comunità, della città, della πόλις (pólis), di cui era emblema la piazza, l’ἀγορά (agorá). Ecco farsi vivo il tema aristotelico dell’uomo come “animale politico”, animale che si dedica, oltre che all’etica, anche alla vita pubblica, politica appunto, per cercare di raggiungere la felicità, vale a dire la “vita secondo ragione”. Questa concezione di uomo, di cui la πόλις non è che la rappresentazione di esso inteso come “collettività”, “società”, è in evidente contrasto con la figura del gigantesco Polifemo, il quale, «solo», «separatamente» e «stando in disparte», conduce «uno stile di vita senza legge», «lontano dagli altri».
Anche la caratterizzazione di Polifemo quale pastore di greggi è significativa, se inquadrata in quest’ottica. Risalendo agli albori della Storia, si può confrontare il conflitto tra l’uomo Ulisse e il ciclope pastore Polifemo con quello mesopotamico, narrato nell’Epopea di Gilgameš, in cui viene descritta la vittoria dell’eroe, noto anche come Galgamiš o Giš.gim.maš, su Enkidu, brutale “uomo selvaggio”, che non conosce l’agricoltura, così come Polifemo, che ignora il vino, di cui finisce, al pari del biblico Noah (Noè), per inebriarsi. Polifemo dunque è il diverso, il barbaro che non conosce civiltà, secondo la concezione greca dei barbari, diversa da quella dei Romani, per cui costoro erano soltanto manchevoli di alcune τέχναι (téchnai). Il fatto che, nel chiedere aiuto, Polifemo non riesca a comunicare il suo dolore agli altri ciclopi, a mio avviso, può essere indice anche della sua apolitia, oltre che dell’astuzia d’Odisseo.
Lo scontro fra il mostro e l’eroe (archetipo, per usare una terminologia junghiana, mitologico peraltro presente dalla Scandinavia di Thor e Jormungand, la perfida serpe di Midgard, alla valle dell’Indo di Indra e del mostro Vrtra) cela un conflitto etnicoculturale fra i Greci (coltivatori di viti e ulivo) e i barbari, dipinti come pastori. È proprio la pastorizia a costringere l’“apolide” a una condizione di seminomadismo, antitetica alla civiltà dell’agricoltore sedentario. Tale conflitto etnico-culturale è ben evidenziabile nei fatti storici e negli scontri bellici che interessarono il Vicino Oriente antico, nell’accezione estesa di Greater Mesopotamia, per esempio sotto la XV dinastia faraonica (Hyksos), quando popolazioni di pastori semi-nomadi (tendenzialmente di lingua semitica occidentale e ḫurritica) penetrarono in Egitto. I semi-nomadi vennero descritti come rozzi, rudi e bellicosi da parte egizia, da parte dei testi di una terra che, al pari dell’Ellade, viveva prevalentemente di agricoltura e pesca. Ma gli stessi semi-nomadi che, dopo la loro espulsione dall’Egitto nel XVI sec. a.C., andarono a formare i clan proto-israelitici sedentarizzatisi, descrissero a loro volta come “barbare” e incivili le popolazioni loro nemiche, come i Filistei, di origini mediterranea, ma indoeuropea. Come non ricordare nuovamente la lotta del re David di Giuda e Israele e il gigante Golia, filisteo? Così come nell’opera omerica, ancora una volta il piccolo David sconfigge con l’astuzia il grande ma stolto Golia, assimilabile a Polifemo, che «non assomigliava a un uomo che mangia pane». Il tema del “pane” diviene significativo se si comprende come esso sia proprio il frutto del lavoro della civiltà, l’agricoltura. Lo stesso re David era oriundo di Betlemme, Bethleḥem, letteralmente “casa del pane”, alimento sacro ai faraoni, re di agricoltori sedentari, con la dea Hathor associata al pane sacro del tempio del monte Serâbit el-Khâdim (di cui scrive Laurence Gardner), che viene generalmente identificato col biblico monte Horeb, nella penisola montuosa del Sinai. È un conflitto culturale pertanto a contrapporre Ulisse a Polifemo, Davide a Golia: a dividerli la civiltà, nella prospettiva elleno-centrica e giudaico-centrica.
L’incontro-scontro tra le due coppie dunque non è solo un mito narrato in un poema, ma è la descrizione di una cultura, è lo specchio dei sentimenti, delle passioni e anche degli odi e dei pregiudizi che animavano e animano le culture, l’antica Grecia, da un lato, e il regno di Giuda, dall’altro.
Di Andrea Di Lenardo, HERA