Nextpapers online
Il meglio del web

GIUSEPPE CAPOGROSSI E IL VALORE DEL SOGNO

Dalla pittura tonale ai “geroglifici” di un alfabeto preistorico

Per ricordare i cinquant’anni dalla morte di Giuseppe Capogrossi (Roma, 1900-1972), uno dei protagonisti negli anni Trenta della pittura tonale e nel Dopoguerra dell’Astrattismo italiano, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma organizza una mostra di circa trenta opere dell’artista, divise per temi. La rassegna, aperta dal 20 settembre al 30 ottobre, è ideata da Cristiana Collu e curata da Francesca Romana Morelli con la Fondazione Archivio Capogrossi. Seguirà una mostra diffusa, a cura di Patrizia Rosazza Ferraris, con incontri e focus sull’artista, dislocati in circa 35 musei e istituzioni italiane.

SODALIZIO. Singolare autoritratto, quello che Capogrossi esegue nel 1927. Di solito i pittori, quando si ritraggono al cavalletto, possono raffigurare anche una modella, una statua o qualche strumento del mestiere, ma non ammettono mai nella composizione altri colleghi. Invece Capogrossi ritrae anche Emanuele Cavalli, e lo ritrae come un suo alter-ego: stessa pettinatura (o quasi), stessa fisionomia, stessa espressione, stessa maglia scura. E infatti in quegli anni il loro sodalizio è strettissimo. Insieme espongono nel 1927 a Roma; insieme sono protagonisti nei primi anni Trenta della pittura tonale, basata sull’armonia dei toni; insieme partecipano nel 1933 a una collettiva alla Galerie Bonjean a Parigi, presentata da un critico come Waldemar George, che era il Celant o il Bonito Oliva dell’epoca. Insieme stilano, sempre nel 1933 (con Roberto Melli e inizialmente Corrado Cagli), il Manifesto del Primordialismo plastico che teorizza una “aspirazione al primordiale” e ai “moderni miti”.

FORCHETTONI. Le loro strade si dividono in seguito quando Capogrossi, dopo un periodo di maggior accensione del colore – preannunciato da opere come Arlecchino, 1936 – e, nell’immediato Dopoguerra, di adesione al Neocubismo, approda a una originale forma di astrattismo, tutta impostata sul valore del segno.

L’artista dipinge allora, come si vede in Superficie 419 del 1950 o in Superficie 138 del 1954, una processione di grandi geroglifici, simili a lettere di un alfabeto preistorico. Qualcuno li chiama ironicamente “forchettoni”, ma in realtà quegli strani segni, ora più piccoli, ora più grandi, ora in bianco e nero, ora accesi di squillanti rossi e gialli, rivoluzionano il senso dello spazio.

Nei quadri di Capogrossi non ci sono più volumi tridimensionali, ma solo superfici, come dicono i titoli: cioè pure apparenze. I suoi segni sembrano le note di un pentagramma musicale: note sparpagliate nello spazio e illeggibili, si intende, perché dietro la maschera elegante delle sue composizioni Capogrossi nasconde un pensiero venato di inquietudine. I suoi segni vagano senza una meta e senza un orizzonte: sono un alfabeto incomprensibile.

Negli stessi anni in cui si afferma l’esistenzialismo, che teorizza il non senso dell’essere, Capogrossi dipinge opere apparentemente senza drammi, anzi a volte luminose e addirittura festose, ma esprime anche lui l’incomprensibilità della vita. I suoi geroglifici sono segnali che non sanno indicarci dove andare. Anzi, sanno indicarci e in-segnarci solo la loro bellezza.

Potrebbe piacerti anche
Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato.