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GLI AFFARI SONO AFFARI

Hitler avrebbe portato a termine il suo piano di riarmo ed ESPANSIONE bellica anche senza il SOSTEGNO dei colossi tedeschi e di grandi industrie straniere? Per gli STORICI, no

Parte VI

Thyssen, Krupp, Bayer. Ma anche Standard Oil, General Motors, Ibm, Ford: sono solo alcuni dei marchi più famosi, tedeschi e non, finiti sul banco degli imputati per aver fatto affari all’ombra della svastica. Capo d’accusa: aver collaborato con il regime chiudendo gli occhi sulle sue derive antisemite e criminali. Con un’aggravante: aver sfruttato la manodopera dei campi di internamento. Per tutti nell’immediato dopoguerra c’è stata la condanna della Storia. In alcuni casi anche della giustizia. Ma perché parte della grande industria si mise al fianco del regime? Subiva il fascino magnetico del Führer o fu una scelta di pragmatico opportunismo economico?

La caduta degli dèi

Negli Anni ’30 molti industriali tedeschi concordavano su un principio: la democrazia, così com’era, aveva fallito. La costituzione di Weimar non garantiva la governabilità del Paese. Serviva un governo forte, capace di riportare la Germania agli antichi splendori, spiega la storia.

Ciò che gli industriali volevano era stabilizzare il Paese arginando il rischio di derive comuniste. Intendiamoci: non desideravano nessuna autarchia, nessuna guerra, nessun embargo. Non erano nemmeno antisemiti: non si trattava quindi di un’adesione al programma hitleriano. Finanziavano a pioggia tutti i movimenti nazionalisti e conservatori tedeschi, nazismo incluso. Di certo non avevano simpatie socialdemocratiche né comuniste.

Il fenomeno Hitler peraltro non era ancora ben chiaro a tutti. Un cronista americano a Berlino nel 1932, Abraham Plotkin, scrisse, dopo aver assistito a un comizio di nazisti capeggiati da Göbbels: “Sarebbe quindi questa la famosa minaccia alla Germania e al mondo? Confesso la mia delusione… ero venuto per vedere una balena e ho trovato un pesciolino”. Un anno dopo il “pesciolino” sarebbe diventato uno squalo. Nominato cancelliere, Hitler, sfruttando le paure provocate dall’incendio del parlamento tedesco, il Reichstag, avrebbe abolito la costituzione, sguinzagliando le Ss per il Paese. Nel biennio successivo mentre Göbbels organizzava i falò dei “libri degenerati” e Brecht, Thomas Mann, Albert Einstein e moltissimi altri lasciavano la Germania, dai consigli di amministrazione delle aziende venivano espulsi i manager ebrei. Nel silenzio della grande industria.

Banchieri spregiudicati

Le politiche di riarmo rendevano i loro guadagni stellari, permettendo ai magnati dell’acciaio, della chimica e della siderurgia di fare affari d’oro tramite le commesse statali. Musica per le orecchie dei Thyssen, dei Krupp, dei capi del colosso chimico IGFarben. E di banchieri spregiudicati fedelissimi al Führer.

Quando il direttore della rivista statunitense Foreign Affairs, Hamilton Fish Armstrong, giunse a Berlino, nel 1933, andò a trovare Hjalmar Schacht: l’uomo che al regime aveva versato generosi finanziamenti ricevendo in cambio la nomina a ministro delle Finanze e direttore della Banca del Reich. “Arrivato in banca, Armstrong venne scortato in una grande cucina vuota dove Schacht stava posando per uno scultore che gli faceva un busto. Siccome lo voleva scorgere dal basso, l’artista lo aveva fatto sedere su una sedia in cima a un grande tavolo. Perciò, mentre l’artista sudava alla sua opera per plasmare qualcosa di somigliante al volto brutto e tirato del banchiere, questi spiegava al direttore che il nazismo avrebbe corretto gli eccessi del capitalismo creando un sistema economico più stabile e affidabile”, racconta il giornalista americano Andrew Nagorski in Hitler, l’ascesa al potere.

Previsioni sbagliate

Tra gli industriali non era il solo a pensarla così. Condivideva lo stesso pensiero anche Fritz Thyssen, che nel 1941 pubblicò un libro dal titolo inequivocabile: Pagai Hitler. Negli Anni ’30 non presagiva che da lì a breve il suo Paese avrebbe dichiarato guerra, indirettamente, all’intero sistema capitalistico. Quando scoppiò il conflitto denunciò pubblicamente la sua contrarietà. Pagando cara “l’intemperanza”: cercò rifugio in Francia dove la Gestapo lo catturò riportandolo in Germania. Contrariamente a quanto ha sostenuto una certa storiografia marxista, non ci fu però un complotto della grande finanza a favore di Hitler. A guidare la maggior parte degli industriali fu l’opportunismo. Come nel caso dei Krupp, la potente famiglia che Luchino Visconti rappresentò nel suo film La caduta degli dèi (1969). Arricchitasi negli anni della rivoluzione industriale grazie allo sviluppo della siderurgia, era produttrice dei cannoni che sconfissero Napoleone III a Sedan nel 1870. Sempre loro avevano sfornato i treni del Reich di Bismarck. Un colosso tedesco, insomma. Durante il nazismo rimasero sulla cresta dell’onda divenendo il perno del riarmo tedesco, guadagnando milioni di marchi. Per ridurre il costo del lavoro non si fecero scrupoli a usare la manodopera proveniente dai lager. Con la stessa freddezza con cui la IGFarben (di cui la Bayer faceva parte) produceva lo Zyklon B usato nelle camere a gas di Auschwitz e di altri campi di sterminio.

L’America è vicina

Anche oltreoceano non mancarono casi di magnati disposti a fare affari col diavolo.Nel ’41 in Germania c’erano centinaia di aziende statunitensi con cui il Reich stringeva accordi. Ad alcuni dei loro alti dirigenti Hitler conferì il titolo onorifico dell’Ordine dell’aquila tedesca. I marchi più “esposti” sono oggi noti grazie alla ricerca storica. L’industria petrolifera dei Rockefeller, la Standard Oil del New Jersey, fece affari fornendo alla tedesca IGFarben il piombo tetraetile per alimentare gli aerei della Luftwaffe e l’olio pesante per i carri armati dellaWehrmacht. Senza, secondo molti analisti, non sarebbe stata possibile l’invasione dei Sudeti e della Cecoslovacchia né la successiva espansione. Così come senza le sofisticate macchine prodotte dalla filiale tedesca della Ibm (la Dehomag) non sarebbe stato possibile mappare la riorganizzazione industriale del Reich (compresa l’industria bellica) né catalogare la popolazione dentro e fuori dai lager. Queste macchine permettevano di schedare tutti i cittadini presenti sul territorio registrando sesso, nazionalità, percentuale di sangue tedesco e altro. Il più spudorato fu però Henry Ford: nel suo caso si trattava di affinità elettiva col Führer. Non a caso nello studio di Hitler campeggiava una gigantografia dell’industriale americano. E il suo Mein Kampf fu ispirato, per sua stessa ammissione, al libro L’ebreo internazionale (1920), un’opera di Ford in 4 volumi, dai toni antisemiti. Ford a Colonia aveva una sua filiale, non colpita dai bombardamenti del 1942: nei sei anni di guerra la fabbrica fornì 78.000 mezzi pesanti al Reich. All’interno lavoravano gli internati dei lager, sotto la supervisione della polizia tedesca.

Cambio di casacca

«Nel 1944, quando era evidente che la guerra era persa, molti imprenditori abbandonarono il carro di Hitler e ripresero a tessere accordi sotto banco con il mondo occidentale: si preparavano al dopoguerra», conclude Corni. Effettivamente, liberata Berlino, la resa dei conti con il mondo dell’industria fu più simbolica che sostanziale. Alcuni dirigenti e imprenditori tedeschi vennero condannati a Norimberga: Krupp e IGFarben in testa. Quest’ultima fu accusata di avere usato 83.000 schiavi provenienti dai lager. Dei 24 imputati, 13 furono ritenuti colpevoli di genocidio, schiavitù e altri crimini e condannati al carcere, con pene da un anno e mezzo a 8 anni. Ma un anno dopo la sentenza tutti furono liberati, grazie anche alla mediazione dell’ex ministro delle Finanze Schacht. La guerra era finita. Il pericolo sovietico e l’avvento della Guerra fredda creavano nuovi equilibri geopolitici. La grande industria si preparava a giocare ancora un ruolo da protagonista.


Thyssen il ribelle

Magnate della siderurgia, Fritz Thyssen, classe 1873, negli Anni ’20 controllava più del 70% delle riserve tedesche di acciaio, dava lavoro a oltre 200mila persone ed era uno degli uomini più influenti della Germania. Aderì con entusiasmo al progetto nazista, finanziando lautamente il partito, soprattutto negli anni della sua ascesa. Lo confermerà lui stesso in un libro dal titolo inequivocabile: Pagai Hitler, pubblicato nel pieno del conflitto, nel 1941 a NewYork.

Voltafaccia
Cosa si aspettasse l’industriale tedesco da Hitler è stato oggetto di discussione almeno quanto il suo successivo disincanto. Dalla Notte dei lunghi coltelli (1934) in poi fu una progressiva delusione, ma nonostante questo rimase nel partito e nel Reichstag. Fino al 1939, l’anno dello strappo finale. Il Paese era stato riarmato fino ai denti, adesso le armi iniziavano a essere rivolte verso i nemici del Reich. Con l’inizio della guerra, Thyssen denunciò la sua contrarietà alla linea nazista a suo dire suicida, e fuggì dalla Germania. Cercò rifugio in Francia con l’intenzione di scappare in Sud America, ma quando il Paese venne occupato gli uomini della Gestapo lo prelevarono, deportandolo in diversi campi di concentramento: gli ultimi furono Buchenwald e Dachau.Qui le forze alleate lo liberarono nel ’45. Sarà processato per il suo sostegno al partito e il 15% delle sue aziende tedesche sarà confiscato. Morirà di infarto nel 1951.


5 COSE CHE NON SAPEVATE SUL FÜHRER

1 – I baffetti? Alla moda

Il look di Hitler non fu solo una personale scelta di stile. Da giovane portava infatti baffi lunghi, secondo la moda di inizio ’900. Quando entrò nell’esercito (durante la Prima guerra mondiale) fu costretto a sfoltirli per poter meglio indossare le maschere antigas. E poi li mantenne così, seguendo la nuova moda prevalente.

Marziale
Fu invece l’amico Dietrich Eckart, esponente di spicco della società segreta Thule (primo nucleo del partito nazista) a fargli abbandonare gli abiti trasandati da bohémien a favore di una tenuta più marziale.

2 – Fanatico dei dolci

A causa dello stato di salute precario e della sua ipocondria, Hitler intraprese numerose diete, durante le quali si privò dell’alcol e della carne (senza diventare mai del tutto vegetariano). Solo a una cosa non seppe mai dire di no: i dolci. Aveva una vera passione per il cioccolato e la panna. Inoltre zuccherava ogni tipo di bevanda, acqua e vino inclusi. La golosità gli procurò ovvi problemi con i denti. Hitler però se la faceva sotto come un bambino di fronte al suo dentista, il fidato Johannes Blaschke.

Dal dentista
Questi raccontò in seguito che il Führer aveva una soglia del dolore bassissima:“ Moriva dalla paura alla sola idea di doversi sedere sulla mia sedia”, riferì. Così, i denti guasti alla lunga provocarono a Hitler una perenne alitosi.

3 – Un talento, ma per la pubblicità

Ascuola Hitler era un somaro e anche come pittore non era granché. La sua vena artistica riuscì però a brillare quando, a vent’anni, si cimentò con la pubblicità. Si trattava di dipingere cartelloni per reclamizzare prodotti di vario tipo, come brillantine, deodoranti e detersivi.

Creativo
Per ogni soggetto il giovane Adolf disegnava una vignetta e ideava uno slogan originale. Perfezionò così la conoscenza di quelle leggi della comunicazione che gli saranno utili durante la presa del potere, quando il “prodotto”reclamizzato era il nazismo.

4 – Una bambola per le truppe

Non sopportando che i propri soldati di stanza in Francia “inquinassero” il loro sangue ariano con le prostitute locali, nel 1941 Hitler fece progettare una bambola gonfiabile in grado di soddisfare i bisogni delle truppe. Le istruzioni erano dettagliate: “pelle chiara, bionda, occhi azzurri, 1,76m di altezza e seni grandi”. In breve, una perfetta donna ariana.

Affari
Un bombardamento alleato rase però al suolo la fabbrica di Dresda incaricata della produzione, e così i bordelli francesi continuarono a fare affari con i tedeschi.

5 – Ammiratore di King Kong

Hitler apprezzava l’arte cinematografica. Ma quali erano i suoi gusti? L’attrice preferita era Greta Garbo, mentre l’attore che detestava di più (almeno pubblicamente, visto che in privato mostrò di apprezzarne le doti comiche) era Charlie Chaplin, che nel 1940 si era fatto beffe di lui nel film Il grande dittatore.

Modello
Pellicola del cuore era King Kong (1933). Il celebre scimmione rappresentava per Hitler un esempio di forza primordiale: da lui avrebbe preso a prestito il vezzo di battersi il pugno sul petto durante i comizi.

Continua 

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