
GLI ORANTI E IL CONTROLLO DEL CLIMA
– Un estratto del libro Antichi Alieni in Italia –
Si parla di «oranti» fin dalla preistoria per indicare figure antropomorfe danzanti con le braccia alzate al cielo, che l’uomo primitivo amava rappresentare spesso nelle incisioni rupestri neolitiche e dell’età del Bronzo. Hanno più o meno tutti la stessa posizione: le braccia sono piegate verso l’alto e le gambe sono simmetriche e contrapposte verso il basso. Nessuno è ancora in grado di spiegare con certezza origini e identità di questi personaggi, se non legandoli ad antiche forme di movimentati rituali rivolti al cielo. Abbiamo trovato moltissimi oranti in Val Camonica, e parecchi «uomini capovolti» (oranti al contrario) in Sardegna, ma questa volta vogliamo andare avanti nel tempo, per mostrare quanto non si sia perduta l’abitudine della loro presenza, nonostante siano sempre accompagnati dall’eterna domanda su cosa stiano effettivamente facendo e perché.
Gli strani oranti di San Cassiano in Controne
Le chiese spesso ricolme – soprattutto quelle romaniche – di simboli e immagini pagane, non hanno certo evitato di protrarre anche l’immagine degli oranti e capita spesso di trovare esserini con le braccia alzate rivolte al cielo, a far le veci dei sacerdoti. Ma sulla pieve di San Cassiano in Controne a Bagni di Lucca (LU), sulle pendici della Valle di Lima in Toscana, ce ne sono di particolari che vale la pena osservare con attenzione. Antropomorfi con elementi discordanti come le orecchie che paiono di animale, lupo per quelli della facciata e orso per quelli sulle mura laterali, mentre gli occhi sembrano avere un taglio orientale. Il personaggio centrale sulla lunetta sopra il portone ha inoltre incisioni sul corpo e sul volto che dovrebbero rappresentare peli o abiti inusuali, simili a quelli «bombati e pieghettati» degli astronauti. Uomini tutto sommato comuni, peccato che non venga quantomeno ipotizzato il motivo delle strane orecchie che emergono dalla testa. Troviamo oranti anche in altre pievi, come ad esempio Gropina e solitamente in edifici romanici molto antichi, in cui si trovano personaggi a cui è stato attribuito di tutto, da operai sacrificati in incidenti edilizi per la costruzione della chiesa a sacerdoti. Eppure le braccia alzate al cielo ci ricordano un personaggio mitologico che tutti conosciamo: Atlante, il Gigante con il compito di sostenere il cielo con le braccia alzate per l’eternità, in seguito a una punizione inferta da Zeus per aver partecipato alla rivolta dei Titani contro il Padre degli dèi.
I pilastri del mondo e il «controllo del clima»
Vogliamo a questo punto esprimere una nostra ipotesi forse più azzardata ma, rispetto a quelle conosciute, più interessante: gli oranti con le braccia piegate quasi a sostenere uno sforzo, anziché pregare, potrebbero semplicemente reggere il cielo e di conseguenza dominare il clima. Questo pensiero ci è venuto in mente riflettendo sui menhir e sulla loro disposizione verticale, la quale li giustificherebbe come simboli fallici, ma non solo, anche come trasposizione dei «pilastri del mondo», oggetti che esistono nella mitologia greca e sono gestiti da Atlante per sostenere il cielo. Ci chiediamo quanto possa essere credibile che gli uomini primitivi, che dovevano pensare a cercare cibo e riparo, avessero chiaro il concetto di «tenere in piedi il cielo». A sostegno di questo pensiero esiste un documento storico di Rudolf di Fulda del IX secolo, che riporta il concetto dei menhir venerati dai popoli nordici «come sostegno di tutte le cose». I Titani controllavano il cielo, il clima e dominavano l’empireo e molti dèi erano responsabili di piogge, tempeste e perfino del ritorno del sole nel cielo azzurro. Questo è un aspetto fondamentale che avvicina ancora una volta le antiche divinità a noi, uomini moderni: l’umanità, se anticamente era succube del tempo atmosferico, oggi ha scientificamente fatto passi da giganti sulla gestione del clima, arrivando quasi a controllarlo. È dunque forse possibile che dèi o Titani un tempo potessero controllare il clima, motivo per cui i primitivi li supplicavano con veri e propri rituali per far piovere o far uscire il sole. Hanno forse incontrato qualche Dio alieno che deteneva questo tipo di controllo? Qualcuno di extraumano, rappresentato simbolicamente come un essere che regge (controlla) il cielo? In forza di queste domande abbiamo dedotto la possibile funzione dei menhir e degli oranti, ovvero quella di tenere stabile il clima per la buona riuscita dei raccolti. Certamente non è un caso che l’«uomo capovolto», che in alcuni casi non è altro che un orante visto al contrario, sia inciso proprio sopra i menhir. Ci sentiamo a questo punto di vedere questi misteriosi oranti, che da millenni vengono considerati dagli archeologi come sacerdoti dedicati a balli sfrenati, sotto una nuova luce: esseri che con le ginocchia piegate e le braccia alzate reggono il cielo, a ricordo di un incontro con entità extraterrestri che avrebbero variato il tempo atmosferico per aiutare gli uomini primitivi, figure reali che hanno dominato gli avvenimenti della nostra atmosfera, modificando il clima sulla Terra, fino agli stessi eventi sismici o vulcanici. Rappresentavano insomma coloro che dominavano il Tutto al punto da decidere se far vivere o morire gli uomini, controllando le piogge, il sole e i cataclismi, di fronte alla cui scelta gli abitanti dei villaggi si prostravano in richieste disperate, arrivando anche a sacrificare se stessi.
Le misteriose statue menhir
Il simbolo più misterioso e allo stesso tempo affascinante è l’uomo capovolto o «caduto» presente in Sardegna, identificato dagli archeologi come l’anima che viaggia nell’aldilà. Ce ne sono diversi nel Museo della statuaria preistorica di Laconi (OR) e sono scolpiti solo sui menhir «maschili», i menhir femminili sono invece privi di questi simboli. Le donne hanno un evidente seno a cerchio e a volte un foro all’altezza dei genitali; gli uomini hanno il volto a T, che indica naso e sopracciglia, in cinta l’arma a doppio pugnale scolpito sempre in orizzontale e infine portano sul petto la figura più misteriosa, il «capovolto», un uomo stilizzato a testa in giù con le braccia e le gambe aperte, come se stesse precipitando nelle viscere della Terra. Le «statue-menhir» sono state datate tra il VI e il IV secolo a.C., risultano ancora oggi ben conservate grazie anche al clima secco della regione e costituiscono un’importante testimonianza del culto prenuragico, i cui rituali erano spesso e volentieri legati alla natura, all’oltretomba e alla Dea Madre, la prima forma divina venerata dall’uomo. I Sardi nel periodo Neolitico /Eneolitico scolpivano grandi massi, realizzando arcaiche figure maschili e femminili, come capi villaggio, eroi o personaggi che si erano distinti per qualche azione particolare. Queste grosse pietre sono presenti in diversi punti della Sardegna, spesso allineate lungo linee energetiche precise e rappresentano ancora oggi un enigma. Infatti, l’uomo capovolto è un orante al contrario e se questo sosteneva il cielo e controllava il clima, il capovolto poteva avere la stessa funzione, tant’è che, non a caso, si trovava sui menhir che, come abbiamo detto, costituivano i pilastri del mondo e sostenevano il cielo. Eppure anche per il capovolto abbiamo formulato una diversa ipotesi che si discosta da quella ufficiale. Abbiamo visitato alcuni tra gli allineamenti più interessanti perché stanziati al centro esatto dell’isola, all’interno dell’area archeologica di Biru ‘e Concas nei pressi di Sorgono (NU), un ambiente ancora incontaminato nel quale sembra non sia mai trascorso il tempo. Purtroppo su questi menhir si sono perse le tracce delle incisioni, ma quelli conservati a Laconi mostrano ancora caratteristiche evidenti.
L’uomo capovolto
Questa figura, che da sempre ha suscitato molti interrogativi, è stata interpretata dagli archeologi come un «ritratto dell’anima che cade verso l’aldilà». Ma com’è possibile che l’uomo primitivo, che doveva pensare a sopravvivere e dunque a restare in vita, pensasse e potesse comprendere il concetto di «caduta nell’aldilà», che rimane difficile anche per noi? Certo, l’uomo primitivo sardo era speciale; nonostante non utilizzasse una scrittura propria, era un grande frequentatore di simboli e nel 3500 a.C., durante il tardo neolitico, cominciò a essere misteriosamente coinvolto in rituali anomali, ma che costituiscono la base della religiosità antica sarda: culti legati al Dio Toro, alla Dea Madre e per l’appunto, alla vita nell’aldilà, per via della presenza delle domus de janas (case delle fate), vere e proprie dimore per i defunti. Si credeva insomma in una fervida sopravvivenza post mortem, in quanto queste domus erano scolpite con stipiti e colonne per riprodurre l’ambiente familiare della vita terrestre. A volte veniva dipinto l’interno di rosso per imitare l’utero della donna, affinché i defunti potessero rinascere a nuova vita. Forse erano culti pervenuti da quelli egizi, con cui i Sardi avevano avuto contatto, dopotutto anche in Egitto si adorava il Toro (Api), la Grande Madre (Iside) e si credeva nella vita ultraterrena (corredi funerari e mummificazione). Perché questo radicato legame dell’uomo con l’oltretomba? C’era forse una memoria collettiva che li convinceva che la vita non aveva termine con la morte? O semplicemente veniva osservava la natura, soprattutto gli alberi, ipotizzando che sulla Terra nulla muore ma tutto si rigenera? Gli uomini osservavano attentamente i cicli della natura per trarne insegnamento, se guardavano per ore, giorni, mesi il comportamento di un piccolo insetto, altrettanto facevano per gli astri, ponendosi l’unica, immensa domanda sul «senso della vita». Erano popoli tutt’altro che preistorici, con valori spirituali consapevoli. Essi comunicavano con le divinità tramite sentite celebrazioni: rituali di morte, di rinascita, di fecondità e di ringraziamento, che avvenivano all’interno di aree dalla forte energia perché solo lì, uomo e Dio potevano incontrarsi. E infine lasciavano un simbolo, una firma per identificare quello che era avvenuto.
La caduta e la nascita dell’umanità
Dunque, se la caduta è nell’oltretomba, per l’archeologia ufficiale il capovolto indicherebbe un simbolo di morte. Noi ci sentiamo invece di formulare un’ipotesi alternativa e azzardare che possa essere, al contrario, un simbolo di nascita. Lo abbiamo pensato ispirandoci a come veniamo al mondo, con la testa in giù e al fatto che, anticamente, si partorisse in piedi, quindi il neonato nasceva proprio come un «capovolto». Ma dato che questo simbolo veniva scolpito solo sul ventre di un menhir maschile, non poteva indicare un parto e l’arrivo di un figlio. Probabilmente sempre di nascita si trattava, ma di nascita globale, quella dell’umanità sulla Terra, intesa come caduta dell’uomo da essere divino a essere materiale, fatto occultamente narrato nella Bibbia e in altre religioni. L’uomo avrebbe dunque, per motivi ignoti, mutato il suo stato da divino a umano, cadendo a un livello inferiore. Un cambio che potrebbe essere spiegato con una «caduta vibrazionale», in quanto la materia per come la conosciamo ha una vibrazione, mentre la luce ne ha una superiore, potenzialmente presente ma non manifesta nell’uomo. Eravamo forse esseri straordinari e perdendo questa condizione saremmo divenuti esseri umani? Poteva un popolo primitivo disegnare con il simbolo questo concetto per cercare di mantenerne memoria? Ma soprattutto perché i nostri creatori avrebbero deciso di declassarci a esseri mortali? Ci colpì molto un articolo di Antonio Bonifacio pubblicato sulla rivista Hera riguardo la caduta primordiale, ovvero il ragionamento su quanto scritto in Genesi 21, momento in cui Dio vestirebbe i progenitori con «tuniche di pelle» dopo averli cacciati dal Paradiso. Queste tuniche sarebbero da intendersi non come vestiti, ma proprio come la nostra pelle, il corpo umano, esattamente come scrive l’autore, sono: «un involucro oscuro che inguaina il misterioso corpo delle origini, un corpo di luce che non viene più percepito con ladcoscienza di veglia». L’uomo da sempre ha avuto la sensazione di aver perso questa immortalità, di essere «caduto» dal suo stato divino in un mondo ostile, dove è costretto a sacrificare la vita per la sopravvivenza della propria specie. Non possiamo dare per certo che i primitivi avessero compreso questo concetto ma, nel caso fosse vero, possiamo pensare che dovessero ricordarlo sottoforma di simbolo, trasportarlo nel tempo e donarlo, come messaggeri inconsapevoli, alle generazioni future che avrebbero «capito».