
I GIARDINI A CASERTA, SCENARI DEGNI DI UN RE
IL PARCO DELLA REGGIA, INSIEME ALLA SUA NASCITA CON CARLO III DI BORBONE, ALLA SUA STORIA E ALLE SUE FONTI DI ISPIRAZIONE, È IL FULCRO INTORNO AL QUALE RUOTA IL PERCORSO ESPOSITIVO DEDICATO AI GIARDINI DAL RINASCIMENTO AL PRIMO OTTOCENTO
Entrando nelle sale di rappresentanza dell’Appartamento della regina, dove si snoda la mostra Frammenti di Paradiso. Giardini nel tempo alla reggia di Caserta, lo sguardo arriva dritto alla fine del percorso, verso i finestroni affacciati sul celebre parco con la scenografica via d’acqua.
Intorno a questo parco ruota l’esposizione di oltre centocinquanta opere, che ne raccontano la storia, a cominciare dall’idea originaria, nata nella testa di Carlo III di Borbone dopo aver conosciuto i giardini di mezza Europa. E così l’esposizione, tra dipinti, disegni, sculture, arazzi, erbari, libri e interventi di arte contemporanea, diventa anche il racconto dei giardini attraverso i secoli che vanno dal Rinascimento al primo Ottocento, quando agli antichi tentativi di ricostruire il Paradiso terrestre, dove tutte le creature vivevano in armonia, si aggiunse l’idea del giardino come esibizione del potere e della ricchezza, come terreno per la sperimentazione botanica e la produzione agricola, come luogo di caccia e di giochi, feste, spettacoli teatrali. “Parádeisos” è la traslitterazione del termine greco di derivazione persiana con cui Senofonte descrisse i giardini di Babilonia. Frammenti di paradiso sono sparsi nelle sezioni che compongono questa mostra, curata da Tiziana Maffei, direttrice della reggia, da Alberta Campitelli e Alessandro Cremona.
Il dipinto che apre la sequenza delle opere è un ritratto di Carlo bambino, raffigurato nel 1724 da Jean Ranc con lunghi riccioli biondi e una redingote azzurra ricamata in oro, la mano sinistra poggiata su un libro aperto sotto un vaso colmo di rose e tulipani e la destra con le dita strette intorno a un rametto di gelsomino. Nato nell’antico Alcázar di Madrid dal matrimonio tra Filippo V di Borbone ed Elisabetta Farnese principessa di Parma e Piacenza, Carlo si inseriva nella complessa politica dinastica abilmente gestita da Elisabetta, che si occupò anche della sua educazione: studi di matematica e geografia, storia sacra e profana, storia della Spagna e della Francia, tattica militare e navale, ballo, equitazione, musica. Il principe scriveva in latino, parlava il francese, l’italiano, i dialetti fiorentino, lombardo e napoletano. Amava la caccia e aveva una predilezione per la botanica. Si divertiva a creare fiori di cera. Visse la giovinezza in una corte che si spostava continuamente. Conobbe così i giardini dell’Alcázar e quelli del Buen Retiro, il fiume tra i grandi viali alberati di Aranjuez, le Reales Alcázares di Siviglia, piene di colori, con gazebi e labirinti, azulejos e fontane, laghetti e congegni idraulici alimentati dall’acqua fornita dal vecchio acquedotto. Fece in tempo a vedere La Granja de San Ildefonso, il complesso realizzato da Filippo ed Elisabetta sul modello dei giardini di Colorno, dove la regina aveva trascorso l’infanzia. C’erano due potenti cascate davanti al palazzo, fontane e sculture, boschetti e giochi d’acqua, aiuole con ortaggi, frutta e fiori, coltivate dai giardinieri fiorentini.
La Granja era appena terminata, quando il 20 ottobre 1731 il giovane Carlo lasciò Siviglia e venne in Italia. Fece tappa a Montpellier per visitare in compagnia del suo medico l’orto delle erbe medicinali. Scoprì i giardini voluti dalle più importanti dinastie regnanti nella penisola, dai Medici ai Della Rovere ai Savoia. Furono questi giardini, oltre ai parchi dell’infanzia e al modello imprescindibile di Versailles, a formare nella mente di Carlo, riconosciuto nel 1738 come legittimo sovrano del regno di Napoli e di quello di Sicilia, il sogno di uno scenario perfetto per rappresentare il suo ruolo e la sua identità. Sogno che coincideva con quello di Maria Amalia di Sassonia, sposata nello stesso anno dell’ascesa al trono. Carlo individuò nella piana lussureggiante a nord di Napoli, con il mare sullo sfondo e il Vesuvio visibile in lontananza, il sito dove costruire la nuova reggia. Nel 1752 ne affidò il progetto a Luigi Vanvitelli, che aggiunse alle suggestioni paradisiache del re le visioni ereditate dal padre, il grande pittore paesaggista Gaspar van Wittel.
Nel 1759, alla morte del fratellastro, Carlo fu chiamato a succedergli sul trono di Spagna e dovette lasciare Napoli. Ma i lavori a Caserta andarono avanti ed ebbero nuovo impulso con l’insediamento del terzogenito Ferdinando IV e di Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, e con l’aiuto di Carlo Vanvitelli figlio di Luigi. Più tardi si aggiunsero i consigli di sir William Hamilton, ambasciatore inglese tenuto in gran conto alla corte partenopea; i suggerimenti del pittore tedesco Jakob Philipp Hackert, gran vedutista ed esperto di botanica; gli interventi del rinomato giardiniere John Andrew Graefer che Maria Carolina fece arrivare da Londra per creare, in un angolo dei centoventitre ettari del parco a cui si aggiungono i sessanta del bosco, un giardino all’inglese simile a quello che la sorella Maria Antonietta aveva voluto nel Petit Trianon donatole da Luigi XVI. Il parco della reggia di Caserta porta ancora la loro impronta. E si riflette nei dipinti che documentano la varietà dei siti che l’hanno ispirato: dai giardini reali spagnoli a quelli del Palazzo ducale di Colorno (Parma); dalle innumerevoli ville medicee intorno a Firenze, immortalate nelle lunette di Giusto Utens, ai giardini vaticani; dalla villa Aldobrandini di Frascati (Roma) alla villa d’Este di Tivoli (Roma); dal parco fluviale del castello di Mirafiori (Torino) agli insediamenti di delizia sui laghi e sui mari e sui fiumi che costellavano la penisola.
Il primo compito di Luigi Vanvitelli fu di trovare l’acqua. Una residenza degna della corte di un regno europeo autonomo richiedeva la disponibilità di grandi risorse d’acqua, necessaria per la vegetazione, ma anche per una scenografia spettacolare, mai vista prima. L’architetto la trovò a quaranta chilometri di distanza, nelle sorgenti del Fizzo, sul monte Taburno (Benevento). La trasportò, con un acquedotto dalle arcate maestose, fino al bosco di San Silvestro, che domina la piana dove si estende il parco. Nel bosco la fece scaturire da una grotta artificiale e precipitare impetuosamente in una ripida cascata tra balze e dirupi fino alla grande vasca di Diana e Atteone, dove si quieta e si raccoglie per incanalarsi in un succedersi di cascatelle e di fontane, nella spettacolare discesa fino al palazzo, affiancata dalle verdi quinte dei lecci.
Nel 1769, una vena fu deviata verso il boschetto di sinistra per riempire la grande peschiera, richiesta da Ferdinando che voleva far la pesca con le reti. E che perciò la ordinò «piena di pesci, vivi o morti che siano, purché in fretta», e Francesco Collecini che dirigeva i lavori riuscì a farla scavare in soli sessantacinque giorni. Fu immortalata ottant’anni dopo dal pittore Giovanni Cobianchi, che la ritrasse con l’isola centrale e le sue cinque capanne di paglia.
Nel 1787 il palazzo e la via d’acqua e i giardini erano pronti. Furono ammirati da Goethe che il 14 marzo di quell’anno li descrisse nel suo Viaggio in Italia: «Un palazzo enorme, somigliante all’Escurial, costruito a pianta quadrata e con numerosi cortili, degno di un re. La posizione è di eccezionale bellezza, nella più lussureggiante piana del mondo, ma con estesi giardini che si prolungano fin sulle colline; un acquedotto che vi riversa un intero fiume, che abbevera il palazzo e le sue adiacenze, e questa massa d’acqua, scorrendo su rocce artificiali, si è trasformata in una meravigliosa cascata. I giardini sono belli e armonizzano assai con questa contrada che è tutta quanta un solo giardino».
Proprio nei giorni in cui Goethe scriveva, Ferdinando faceva disporre nei sotterranei del Casino reale di Belvedere di San Leucio, a sinistra del bosco di San Silvestro, un ingegnoso e avanguardistico sistema di ruote e leve che, utilizzando la forza motrice dell’acqua presa dall’acquedotto carolino, comunicava il movimento agli immensi filatoi della seta, trasformando la produzione artigianale in industriale. Oggi il borgo, con le filande dismesse e le abitazioni a schiera che furono costruite per ospitare le famiglie dei lavoratori della manifattura, è diventato museo, e racconta l’esperimento di utopia sociale di Ferdinando, che lo accompagnò con un codice di regole: scuola per tutte le bambine e i bambini, parità di salario per donne e uomini, assistenza medica, regalie per i più meritevoli. E lo concluse con una Canzonetta, da cantarsi dagli abitatori di San Leucio nel tempo del lavoro: «Se dal nulla, Eterno Nume / l’Uom creasti a te simile / e lui desti immenso lume / gran saper, forma gentile / nel bell’Orto del godere / nel giardin d’ogni piacere…».