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IL MAGO DEL CONSENSO

Controllo sulla STAMPA, uso sapiente della radio, CENSURA, campagne martellanti: le efficaci TECNICHE della propaganda fascista

Parte X

Chissà se qualcuno, allora, si chiese perché nei romanzi gialli del Ventennio ladri e assassini avessero nomi stranieri, l’eroe fosse sempre italiano e non ci si imbattesse mai in suicidi. Anche quell’aspetto apparentemente secondario della vita degli italiani era passato tra gli ingranaggi di un meccanismo perfetto, messo a punto per diffondere la falsa immagine di un Paese felice, raccogliere consensi e confondere la Storia. «Il fascismo creò un’efficace macchina propagandistica», spiega lo storico Emilio Gentile, «utilizzando la stampa, la radio e il cinema per valorizzare i successi del regime e mantenere le masse in uno stato di mobilitazione emotiva permanente, attraverso riti e cerimonie collettive».

Un mito da inventare

La macchina fu avviata già nel 1923, con l’istituzione dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio che, attraverso i prefetti, suggeriva ai giornali quali notizie dare e quali no. Era il primo passo di una strategia di controllo che avrebbe invaso persino la sfera privata. Nove anni dopo, nel decennale della Marcia su Roma e della conquista del potere, il meccanismo era ormai ben oliato. E il fascismo si celebrò con una delle sue più plateali messinscene, affidata alla regia del futuro ministro della Propaganda, Dino Alfieri: una grande mostra per ricordare i “3mila caduti” della rivoluzione fascista. Solo che quei morti e quella rivoluzione, alla quale Mussolini peraltro aveva partecipato da Milano (pronto a scappare in Svizzera se qualcosa fosse andato storto), non c’erano mai stati: a malapena si era riusciti a scovare 500 vittime, molte delle quali morte nel loro letto per malattia. Per le altre 2.500 si ricorse a un elenco di nomi scelti a caso.

Campagna stampa

In pochi anni Mussolini riuscì a inculcare negli italiani il senso di appartenenza a uno sforzo collettivo. Come? Per esempio attraverso martellanti campagne “promozionali” affidate ai cinegiornali del regime, dal 1927 obbligatori in tutti i cinema. In Italia si cominciò a vivere in un clima da grandi imprese, sempre annunciate e di rado portate a termine. Come quando, nel 1925, per ridurre l’importazione di cereali fu lanciata la “battaglia del grano”. L’obiettivo era ampliare l’area seminativa per assicurarsi l’autosufficienza alimentare. Ma la vasta opera di persuasione contribuì anche ad avvicinare i contadini al fascismo e a pacificare le zone rurali, dove le tensioni sociali erano ancora forti. Anche la campagna per la bonifica integrale dei territori paludosi, lanciata nel 1928, si rivelò soprattutto un’operazione propagandistica. Il risanamento dell’Agro Pontino, avviato nei secoli precedenti, fu completato, si fondarono nuove città e furono assegnate terre ai braccianti, ma nel complesso solo un decimo delle bonifiche annunciate fu realizzato. Nel 1929 fu la volta della campagna autarchica. Si inaugurava uno stabilimento per la produzione di cellulosa? I giornali dovevano sottolineare che i forni bruciavano solo carbone nazionale. Il duce aveva visitato il Centro sperimentale di cinematografia? I tecnici avevano di sicuro messo a punto un apparecchio “essenzialmente autarchico”.

Operazione immagine

Ma il successo più grande Mussolini lo ottenne con il culto quasi religioso della propria personalità. Aveva capacità mimiche straordinarie, sguardo penetrante, era attento all’abito e studiava nel dettaglio parole e gesti. Della sua immagine, fin dagli esordi, fece un monumento, atteggiandosi a capo instancabile: ordinò di lasciare accesa la luce del suo studio di Palazzo Venezia fino a tarda notte, per far credere che il Grande nocchiero fosse impegnato a tempo pieno per il bene dell’Italia. Si fece ritrarre in decine di migliaia di istantanee (in realtà meticolosamente selezionate dalla censura) in atteggiamenti che dovevano trasmettere superiorità e competenza: il dittatore con le braccia ai fianchi e il petto in fuori (nella posizione irriverentemente detta “della damigiana”), in versione sportivo, operaio, guerriero, scrittore, padre, aviatore, “messo di Dio in terra”. A commentare le immagini ci pensavano le “veline” (v. riquadro nell’altra pagina) e l’Agenzia Stefani. Fondata nel 1853 dal giornalista torinese Guglielmo Stefani, era stata ereditata dal regno sabaudo e trasformata in agenzia di stampa ufficiale, della quale era obbligatorio seguire le indicazioni. Un giorno, visitando i poderi di Aprilia (Latina), Mussolini si fece ritrarre a torso nudo mentre trebbiava. La Stefani, nel commento alle immagini, non mancò di sottolineare come il duce “non fosse affatto stanco dopo quattro ore di trebbiatura”. E pazienza se in realtà si era limitato a guardare e a fare apprezzamenti. Nel campo della fotografia e della documentaristica, poi, i cineoperatori dell’Istituto Luce fecero miracoli: allargarono il campo di ripresa, realizzarono gigantografie con le quali tappezzare stadi, città e mercati, ne occultarono i difetti fisici.

Antichi fasti

Se il capo era un eroe senza macchia, il suo popolo non poteva essere da meno. Fu così che per l’Italia fascista del XX secolo Mussolini rispolverò un passato glorioso: quello dell’antica Roma. Il mito della romanità, i cui simboli avevano segnato l’origine e il nome stesso del fascismo, fu il tormentone del Ventennio. Il movimento introdusse il saluto romano e organizzò i suoi seguaci sullo schema delle legioni. Mussolini si scelse come predecessore nientemeno che Giulio Cesare e fu presto colto dalla smania di erigere monumenti ovunque. Il duce aveva in mente una radicale metamorfosi di Roma per mettere in luce le vestigia dell’età imperiale, e per dare maggiore visibilità al mausoleo di Augusto o al Colosseo fece abbattere e spostare palazzi, aprendo via dei Fori imperiali e via della Conciliazione. Bavaglio. Il motore del carrozzone promozionale, il ministero della Cultura popolare (detto Minculpop) nato nel 1937 dalla trasformazione del ministero della Propaganda, funzionava adesso a pieno ritmo. Il controllo sulla stampa era assoluto. Già nel 1923 il duce aveva chiesto “la soppressione di alcuni giornali pleonastici” come Epoca e Il Mondo, e ottenuto la rimozione dei direttori sgraditi. Molte testate erano passate sotto il suo diretto controllo e per chi scriveva divenne obbligatorio iscriversi all’Albo dei giornalisti e al Partito fascista. A scuola furono adottati testi unici, le biblioteche epurate. Ma in un’Italia semianalfabeta, libri e giornali erano appannaggio di un’élite. Per arrivare a tutti il regime inventò nuove forme di pubblicità. E così, in stampatello e a caratteri cubitali, fin nei più piccoli paesi, sui muri e lungo le strade, comparvero decine di slogan.

Arma segreta

Ma la vera arma segreta fu la radio, sperimentata in Italia tra il 1922 e il 1924. Mussolini ne intuì le potenzialità e la utilizzò per mettere un altro punto a segno: grazie alla radiofonia e agli altoparlanti installati nelle piazze italiane, mobilitò per anni, un sabato dopo l’altro, milioni di uomini e donne, schierati in adunata. Il messaggio era chiaro: “Insieme siamo forti”. Cose del genere, in Occidente, non si erano mai viste: la politica imposta con tecniche commerciali. Eppure, proprio dalla radio Mussolini ricevette lo schiaffo più doloroso. Dalla fine del 1939, quando gli abbonati erano diventati circa un milione, i rapporti dell’Ovra, la polizia segreta, segnalarono l’intensificarsi dell’ascolto di emittenti estere in lingua italiana, ostili al duce. Prima fra tutte, Radio Londra. “Attenzione, attenzione! Antifascisti di Bari, Trieste, Ancona, Palermo. L’ora è giunta. Il movimento rivoluzionario è alle porte”. Voci esili, notturne. Poi sempre più chiare e seguite. Il governo si rese conto del pericolo e tentò invano di di sturbarne le frequenze. L’apparato propagandistico scricchiolò. L’ideologia e la finzione, avevano acuito il divario con la realtà: l’Italia efficiente e invincibile, dietro la maschera della propaganda, si rivelò un bluff. Ma fino all’ultimo il regime continuò a simulare. Dopo l’arrivo degli Alleati a Roma, fu allestita una finta radio clandestina, che affermava di trasmettere dall’Italia occupata. Era l’ennesima bufala: Radio Tevere, così era stata battezzata, aveva sede a Milano.


La “voce del padrone”: la radio nel Ventennio

La prima trasmissione radio fonica italiana andò in onda il 6 ottobre 1924. L’Uri (Unione radiofonica italiana) era nata appena due mesi prima. Nel 1927 diventò Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche), antenata della Rai. Fino al 1938, quando il Primo e il Secondo programma furono sdoppiati, ci fu un solo canale.

Popolare
Con la diffusione di apparecchi più economici, come la Radiobalilla e grazie all’istituzione nel 1933 dell’Ente radio rurale per la pro mozione del nuovo mezzo nelle campagne, la radio divenne il veicolo preferito della propagan da. I radiogiornali, da tre al giorno nel 1929, passarono a cinque nel 1935.


Le “veline”? Non le ha create la tv

Per il vocabolario Zingarelli, le veline sono “giovani vallette televisive che si esibiscono in abiti succinti”. Striscia la notizia, il programma che per primo le ha lanciate, ne ha due. Ma l’origine delle veline è ben più lontana: inventate dal fascismo nel 1930, e chiamate così per la loro consistenza (erano scritte appunto su carta velina), contenevano gli ordini, pignoli e indiscutibili, agli organi di stampa. Pre parate dal go verno e diffuse anche più volte al giorno (soprattutto dal Minculpop), stabilivano gli spazi che radio e giornali dovevano dare alle notizie, trasmettevano imposizioni, divieti e censure, fornivano informazioni preconfezionate.

Grottesche
La volontà di controllo totale che esprimevano portò a diffondere istruzioni grottesche come queste: “Diminuire le notizie sul cattivo tempo” (1/6/1939), “Il discorso del Duce al popolo italiano può essere commentato. Il commento ve lo mandiamo noi” (23/9/1939).

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