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IL Potere nel Cranio

Tradizionalmente legata a credenze circa la fertilità e il culto degli antenati, la decapitazione rituale e la successiva manipolazione dei teschi umani era associata a credenze che vedevano la testa quale sede dell’anima e persino la chiave che apriva la porta del soprannaturale

Nel mese di agosto 2018, un team di archeologi che scavavano a Vitor distretto, a sud del Perù, ha scoperto i resti mummificati di 60 persone e sei teste “senza proprietario”, tutti risalenti attorno ai 1.500 anni di età. Il ritrovamento, avvenuto all’interno di alcuni pozzi scavati nel terreno, tra i tre e quattro metri di profondità, collegato alla cultura “La Ramada”, non aveva attirato l’attenzione dato il contesto geografico e storico tranne che per una cosa: anche se non risultano inedite in Perù o nella zona del Mesoamerica, la scoperta di “teste trofeo” ha sempre catturato l’attenzione degli antropologi e il pubblico in generale. Sono davvero le teste dei nemici “collezionate” ritualmente? Maria Cecilia Lozada, direttore dello scavo e antropologa presso l’Università di Chicago, non ne è così sicura: «Chissà che invece di appartenere a qualche tribù guerriera rivale, non siano degli stessi combattenti del gruppo Ramada».

Sebbene l’opinione di Lozada contraddica quella della maggioranza, in relazione a questa classe di risultati, le sue argomentazioni sono plausibili. Nella sua opinone, per i Ramada sarebbe stato un enorme sforzo portare al villaggio i corpi dei compagni morti in battaglia, così avrebbero scelto di decapitarli in modo che almeno la testa riposasse accanto ai resti dei loro antenati. Insisto sul fatto che l’ipotesi di Maria Cecilia Lozada, prontamente criticata dai sui colleghi, è contraria all’opinione popolare circa le “teste trofeo”, che le identifica come nemici uccisi in battaglia.

Teste Trofeo o Reliquie?

Non è la prima volta che uno specialista del settore la pensa allo stesso modo di questo antropologo dell’Università di Chicago. Infatti, sia questa pratica specifica, che altri rituali dell’antichità legati alla guerra, continuano a essere oggetto di dibattito e rimangono avvolti da un’aura di mistero. Vediamolo con alcuni esempi. L’invenzione del termine “Testa Trofeo”è attribuita alla archeologo tedesco Max Uhle, che lo utilizzò per la prima volta nel 1914, sostenendo che questi “oggetti” fossero proprio ciò che suggeriva tale definizione: trofei di guerra. Tuttavia, solo quattro anni dopo, il peruviano Julio César Tello propose una diversa ipotesi. Il parere del celebre antropologo, già impegnato nell’analisi dei vari crani delle culture Nazca e Paracas, tra cui alcuni con deformazione cranica intenzionale, focalizzava così la questione: «Le teste erano simboli importanti del potere religioso e sociale e non semplici trofei di guerra. La presenza di donne e bambini nel campione studiato indica come improbabile che le teste fossero trofei ricavati da nemici uccisi in battaglia». Inoltre, Tello sottolineava che gli antichi abitanti della regione di Ica dedicarono molto tempo e fatica alla preparazione delle teste, considerandolo un trattamento eccessivo se si fosse trattato di semplici avversari. In effetti, i Nazcheni presero molto seriamente la pratica rituale della decapitazione, per la quale usavano un coltello di ossidiana. Questi rompevano la base del cranio e rimuovevano parte dell’osso occipitale, l’orifizio attraverso il quale estraevano sia il cervello che i bulbi oculari. Successivamente operavano un piccolo foro nella regione frontale del cranio e al suo interno introducevano una sorta di chiodo di legno fissato ad una corda, che veniva impiegato per trasportarlo. Tuttavia, la decapitazione rituale non si esauriva con la manipolazione, un po’ efferata, di teste dei disincarnati.

Come notato dal neurologo Francisco J. Carod-Artal, detta preparazione «era solo il primo passo di un elaborato rituale il cui attore principale era lo sciamano, che agiva come intermediario tra lo spirituale e l’umano. Si pensa che questo rituale con le teste trofeo fosse accompagnato da elementi musicali, sonagli, flauti di pan, tamburi e zampogne, e svolto durante una processione al santuario di Cahuachi nella quale venivano raggiunti stati di trance favoriti da ingestione di cactus San Pedro. Queste cerimonie appaiono in immagini vivide nelle ceramiche di Nazca e la mescalina del cactus San Pedro vi ha svolto un ruolo fondamentale. Dopo un po’, le teste trofeo venivano sepolte in gruppi nelle caverne o in luoghi sotterranei.

Così, nella Palpa di Nazca, sono state trovate 48 teste trofeo raggruppate in offerta. In una ceramica di Nazca, la sepoltura rituale delle teste trofeo è anche raffigurata sotto un tumulo a forma di piramide, sul lato del quale c’è uno sciamano che porta vari oggetti e circondato da vasi per libagioni». Come si può notare, Carod-Artal usa il termine “teste trofeo” e non a caso, in quanto questo rinomato esperto in neurologia tropicale è convinto che le teste appartenessero a individui di gruppi etnici rivali: «Uno dei fatti più salienti della società di Nazca è la frequente descrizione iconografica delle teste trofeo nelle mani di guerrieri, legate alle cinte di guerrieri e sciamani, o associate a mitiche creature antropomorfe. Le teste trofeo erano appartenenti a soggetti di età media. L’analisi di 84 teste trofeo Nazca ha dimostrato che l’85% dei campioni erano maschi tra i 20-50 anni. In questa società, la guerra e il conflitto sono mostrati nelle loro ceramiche. I guerrieri Nazca sono armati di bastoni, mazze e lance e spesso portano teste trofeo (…). Uno dei principali obiettivi della guerra era ottenere teste trofeo, come si può dedurre dalle scene di decapitazione dipinte sui vasi rituali. Guerrieri riccamente vestiti tengono le loro vittime per i capelli con una mano, mentre li decapitano con un coltello nel bel mezzo della battaglia».

Rimpicciolire le teste

L’eminente antropologo Donald A. Proulx è anch’egli a favore dell’ipotesi delle “teste trofeo” inizialmente proposta da Max Uhle. In primo luogo, come Carod-Artal e molti altri esperti, ricorda che la maggior parte delle teste trovate in Perù (ne sono state scoperte centinaia) appartenevano a giovani uomini, suggerendo che fossero guerrieri. Ma, in aggiunta, Proulx mette a confronto le teste di Nazca con le famose “Tzantzas”, le famose “teste ridotte” realizzate dagli indios Jivaros, o Shuar, dell’Ecuador. Secondo lui, proprio come i Jivaros praticavano la caccia alla testa per ottenere il controllo sulle anime dei loro nemici, i guerrieri della cultura di Nazca credevano che l’impossessarsi della testa di un individuo aumentasse il prestigio personale e la potenza del singolo. Per quanto riguarda i Jívaros, alcuni dei quali continuano a tagliare e ridurre teste per guadagnarsi da vivere – non ci si allarmi, hanno sostituito teste umane con quelle di scimmia – il neurologo spagnolo Francisco J. Carod-Artal descrive quanto segue: «Si dice che gli Shuar organizzavano raid e partiti di guerra nei territori delle tribù vicine per ottenere gli Tzantzas. Il guerriero vittorioso aveva il diritto di tagliare la testa al nemico sconfitto, e in seguito lo riduceva di dimensioni in una serie di rituali. Ridurre le dimensioni delle teste di scimmie era una parte della formazione dei giovani con l’apprendimento della tecnica da applicare alle teste umane (…) La chiusura degli orifizi facciali era motivata dalla detenzione dell’anima del morto all’interno della testa. Per lo Shuar, lo spirito dell’individuo risiede nella sua testa, e coloro che sono morti in combattimento possono tornare a vendicare il guerriero vittorioso. Tuttavia, se il capo del nemico sconfitto viene tagliato e ridotto in dimensioni, è possibile racchiudere la sua anima e impedirne il suo ritorno. Nel mondo spirituale degli Shuar, lo spirito della persona morta, chimato “Arútam”, viene ricevuto da un altro essere umano, solitamente suo figlio o nipote, per perpetuare un ciclo di vita indefinito. Pertanto, il possesso di uno Tzantza implica l’appropriazione simbolica del nemico ucciso in combattimento». Come si può vedere, i sostenitori della tesi sulle teste trofeo quale risultato di vittorie in battaglia sembrano essere più numerosi, e forse ricchi di argomenti, rispetto a quelli che difendono l’ipotesi delle “teste domestiche”, cioè coloro che adoravano membri particolari della loro stessa cultura nativa o come una forma di culto per gli antenati.

Nel caso di Julio C. Tello, la sua posizione è comprensibile se ricordiamo il contesto e la natura della sua ricerca, concentrandosi sulla scoperta dei cosiddetti teschi allungati (un rituale descritto spesso sulle pagine di questa rivista). In relazione a questi reperti, è certo che Tello fu persuaso dal fatto che la loro rara morfologia e il processo che consentiva la loro conservazione fino ai giorni nostri, aveva a che fare con la cura che veniva offerta dai loro proprietari in quanto considerati speciali. Per quanto riguarda i crani convenzionali, quelli che sono stati così accuratamente imbalsamati, perché il popolo Nazca avrebbe dovuto essere impegnarsi così nella loro preparazione se appartenevano a nemici sconfitti? Inoltre, perché tra i numerosi teschi andini studiati da Julio C. Tello e da altri ricercatori non c’erano quasi segni di violenza? Potrebbe davvero essere che, come sottolinea Maria Cecilia Lozada, le teste fossero appartenute a familiari o membri del gruppo e non fossero trofei di guerra?

Galli e Romani

Dove pare ci sono meno controversie è dall’altra parte dell’Atlantico. In Europa, la prova macabra di questa pratica ci conduce alla zona celtica, contesto in cui il “raccolto” di teste sembrava essere all’ordine del giorno. Quanto meno, questa è l’immagine ricorrente che si è tramandata sulle abitudini guerriere di una civiltà che, come ogni altra, aveva sicuramente tante ombre quante le luci, i Celti, e forse diffusa in modo esagerato dai loro stessi nemici. In questo senso, autori greci e latini come Strabone, Diodoro, Livio, Valerio Massimo e persino Giulio Cesare nel suo “La Guerra Gallica”, riecheggiavano le atrocità commesse dai Celti, in particolare i Galli, che sarebbero stati abituali a tagliare le teste dei loro i nemici per poi appenderli sulle loro cavalcature o come decorazione di stendardi dei loro villaggi: «(Nei Galli), la mancanza di riflessione è accompagnata da barbarie e ferocia, come spesso accade con la gente del Nord. Mi riferisco all’abitudine di sospendere, al collo dei loro cavalli, le teste dei nemici quando tornavano dalla battaglia, portandole per inchiodarle di fronte alle porte principali dei loro villaggi. Poseidonio dice che lui stesso vide questo macabro spettacolo in molti luoghi, che all’inizio lo disgustava, ma che, poi, finì per abituarcisi. Imbalsamavano con olio di cedro il capo di nemici illustri per mostrarli agli stranieri e si rifiutavano di venderli anche in cambio del loro peso in oro…» scriveva Strabone. Molto simile è la visione che presenta Diodoro: «tagliano le teste dei loro nemici morti e le fanno pendere dal collo dei loro cavalli, e dopo aver consegnato ai loro servi il bottino insanguinato, le portavano come trofeo intonando una canzone di vittoria, inchiodando alle loro case, come se fossero battute di caccia in cui avevano ucciso animali». Molto più saggio e prudente si è dimostrato Giulio Cesare, che ha esaltato i Galli attraverso i loro sacerdoti Druidi, che «frequentano il culto divino, officiano in sacrifici pubblici e privati e interpretano i misteri della religione», scrisse il leader romano.

Sottolineò che «quando (i Galli) sono afflitti da una grave malattia o stanno per andare in guerra, hanno l’abitudine di sacrificare vittime umane». Cesare non attribuiva ai Galli l’invenzione di collezionare teste, un’abitudine che, come sostenuto dagli storici Jose Maria Blazquez e Javier Cabrero, era diffusa “in tutte le culture in cui la guerra è stata una delle occupazioni principali, tra cui la sovrana civiltà romana”. Infatti, una cosa è che i Romani aborrissero i sacrifici umani, e un’altra quella che alcuni membri delle sue legioni, in particolari situazioni critiche, ricorressero ad essi: «Non c’è dubbio che i Romani siano stati infettati da queste abitudini e, spesso si abbandonassero alla pratica di tagliare le teste e le mani dei vinti, a seguito della progressiva barbarie delle truppe legionarie. Ci sono numerose testimonianze letterarie di questi massacri che sono stati riportati anche nell’arte imperiale, in particolare in quelle opere destinate a commemorare le vittorie del popolo romano.

La colonna di Marco Aurelio raffigura l’abitudine di decapitare i prigionieri e, in quella di Traiano, persino i soldati appaiono con una testa umana appesa alla cintura», spiegano Blázquez e Cabrero. Se lo circoscriviamo alla sfera della guerra, l’usanza di collezionare teste è dimostrata come priva di ogni senso cerimoniale. Tuttavia, nella sua origine, questa pratica potrebbe avere connotazioni magiche e religiose.

Culto della testa

Per quanto riguarda i Celti delle isole britanniche, è più plausibile pensare che la “raccolta” delle teste fosse legata ai riti di iniziazione, cioè fossero eventi isolati, proprio come ha deliberatamente sottolineato Erodoto circa i nomadi delle steppe eurasiatiche, gli Sciti. Quando i giovani Sciti uccidevano il loro primo nemico, tagliavano la testa del vinto e la offrivano al capo tribù. Gli scavi nei dolmen irlandesi eretti tra i 4.000 e 3.000 anni fa hanno portato alla luce resti umani insieme a varie offerte votive. A sorprendere, in alcune di queste scoperte, era la disposizione degli scheletri, con il cranio separato dal corpo e posto in posizione eretta, e il resto delle ossa situate di fronte ad esso. Ovviamente, la scena denotava intenzionalità da parte di chi l’aveva composta, probabilmente Druidi, nel contesto di una sepoltura magica. A questo proposito, l’archeologa gallese Anna Ross (1925-2012), nota esperta di mitologia celtica, ha sottolineato che il culto della testa umana è un tema ricorrente in tutti gli aspetti della vita spirituale dei Celti delle Isole Britanniche, data la loro convinzione che questa fosse la sede dell’anima. Ciò spiegherebbe l’abbondanza nell’iconografia religiosa celtica di “teste mozzate”. Per quanto riguarda il controverso problema della decapitazione sistematica, Ross non ha scoperto alcuna prova archeologica che giustificasse l’attribuzione di questa pratica ai Celti irlandesi o britannici. In ogni caso, la studiosa si riferiva alle storie della mitologia celtica, dove troviamo esempi sorprendenti di teste parlanti, cantanti e persino capaci di fare profezie. Dunque alla base di questa pratica, forse nel tempo corrottasi a strumento di terrore, c’era un elemento basato sulla credenza spirituale che nella testa si situasse la scintilla divina.

Testa sede della Sapienza

Una credenza che, in effetti, ha le su radici nella straordinaria società paleolitica dell’Anatolia (Turchia) o, più specificamente, a Catal Hoyük, nel 8000 a.C.. Le testimonianze iconografiche e archeologiche scoperte in questo famoso sito suggeriscono la presenza di un culto associato alla testa umana, con particolare rilevanza per alcuni soggetti, probabilmente capi, eroi o sapienti della comunità, che venivano decapitati alla loro morte.

La presenza ricorrente di avvoltoi dipinti sulle pareti di Çatal Höyük, e le scene in cui sono raffigurati suggeriscono lo svolgimento di un rituale funerario chiamato “Sepoltura Celeste” o “Scarnificazione Rituale”, ancora oggi in uso in Tibet e, fino a poco tempo fa applicato, dai Zoroastriani dell’Iran nelle loro Torri del Silenzio. Nelle scene di Çatal Höyük, i corpi con la testa separata venivano esposti su delle torri, quindi ripuliti dalle carni da questi uccelli saprofagi associati alla Grande Dea Madre; pertanto avevano come ruolo simbolico quello di accompagnare l’anima nell’ultimo volo nell’aldilà.

Una volta ripulite le ossa, la testa del sacerdote veniva sepolta al di sotto del luogo più sacro dell’abitazione, come se dovesse passare il suo potere ai vivi. Questo perché la testa era considerata la sede dell’anima. Questo concetto si è trasmesso in molte mitologie, cristianesimo compreso, perdendo il suo valore rituale ma sopravvivendo come valore simbolico all’interno dei miti e delle allegorie spirituali e nel pratico, degenerando ad atto di vittoria e supremazia. Tutte le culture antiche hanno dato importanza alla testa quale sede dell’anima.

Ne troviamo ancora vestigia nella parola italiana “decollare”, (di derivazione latina ovviamente) che indica sia l’atto di tagliare la testa che quello di prendere il volo verso il cielo (quindi un atto di elevazione). Nel cristianesimo la testa tagliata la si trova nella storia del Battista, il Giovanni decollato, che non a caso subisce questa morte nel momento stesso in cui Gesù inizia il suo magistero, quasi a suggerire tra le righe un messaggio che indica la morte di un aspetto inferiore (Giovanni) e l’accesso (decollo) a un livello superiore di Sapienza (Gesù). È proprio lo stesso Giovanni che, vedendo Gesù, dice: «Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca. Colui che vien dall’alto è sopra tutti; colui che vien dalla terra è della terra e parla com’essendo della terra; colui che vien dal cielo è sopra tutti» (Giovanni 3,30). In effetti, la Sapienza nel Cristianesimo è anche associata al Graal, un contenitore, una coppa, che è simbolizzata nelle mani della Maddalena sia come ampolla-recipiente, sia come cranio.

La relazione tra le parole “Coppa” e “Capo” è rivelatoria. Questo perché il corpo umano nella tradizione esoterico-spirituale occidentale è associato all’Uomo Vitruviano, perfettamente inscrivibile in una stella a cinque punte, dove i quattro arti sono i quattro elementi che compogono la materia, mentre la testa identifica la Quintessenza, l’elemento spirituale che li domina e li armonizza.

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