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IL “RAPTUS DI FOLLIA” NON SPIEGA SEMPRE LE MORTI VIOLENTE

Nei tribunali viene spesso invocato per “giustificare” un omicidio e avere una riduzione di pena: ma, secondo gli esperti, quell’“improvviso scoppio di violenza incontrollabile” non è poi così improvviso né frequente e, se avviene, è spesso preceduto da segnali premonitori e fattori predisponenti

Non riesco a crederci. Era un ragazzo modello, gentile e premuroso con tutti». Intervistati al telegiornale, i vicini osservano il “ragazzo modello” mentre viene condotto via in manette dopo aver ucciso i genitori. I media parlano di “raptus di follia”; il termine latino raptus significa infatti “rapimento”, e in senso figurato, è associato a un impulso violento e incontrollabile che priva improvvisamente il soggetto della ragione, lasciandolo in preda alla furia omicida. «La parola raptus è altisonante e suggestiva ma priva di valenza psichiatrica», spiega Franco Freilone, docente di psicopatologia clinica e forense presso l’Università di Torino, che continua: «Nella clinica forense non viene utilizzata e per noi psicopatologi significa poco o nulla. A livello puramente mediatico indica un comportamento violento apparentemente a ciel sereno, caratterizzato da un’aggressività e da una violenza omicida incontrollabili che potremmo meglio definire come “agito omicida violento e apparentemente improvviso”. In questi casi, pur mantenendo una sorta di consapevolezza, il soggetto compie un’azione impulsiva efferata, solitamente senza segni di organizzazione». In altre parole, a differenza di un delitto organizzato per il quale l’assassino si procura un’arma da fuoco o uno speci”co mezzo per offendere, l’omicidio non organizzato viene compiuto con corpi contundenti o oggetti da taglio occasionali (martelli, accette da giardino, coltelli, tagliacarte, forbici ecc.) facilmente reperibili nelle case.

Non è un fulmine a ciel sereno

Tornando al “ragazzo modello” che stermina la famiglia, è evidente che i vicini non conoscevano bene il ragazzo; oppure, non avevano colto il suo disagio psichico profondo. Analizzando in retrospettiva la dinamica di simili episodi, infatti, emergono quasi sempre dei segnali premonitori sottovalutati o non decifrati per tempo. Spiega Freilone: «Per ogni singolo caso va valutato lo stato psicologico e psicopatologico alla base dei comportamenti. È infatti impensabile che un marito che uccide la moglie oppure una madre che uccide i suoi bambini non abbiano mai dato precedenti segni di disagio. Analizzando a posteriori questo genere di delitti emergono gli scenari più disparati: condizioni psichiche gravi, situazioni di confiittualità, incomprensioni, rancori esistenziali, narcisismo esasperato, eccetera». Spesso, queste problematiche non vengono intercettate dall’esterno poiché nascoste fra i segreti familiari, ma i segnali non mancano di certo. Molte volte, il soggetto violento in famiglia riesce a mascherare il proprio comportamento al di fuori, mentre pian piano, secondo il principio della pentola a pressione, fra le quattro mura domestiche la situazione si esaspera e si carica di emotività. A quel punto, un episodio scatenante o una fase acuta di stress (problemi con i “gli, perdita del lavoro ecc.) possono farla esplodere. Continua il nostro esperto: «Non per nulla questi episodi violenti improvvisi accadono soprattutto in ambito intrafamiliare e molto più raramente verso gli estranei. La letteratura è univoca: l’assassino agisce verso qualcuno che ben conosce, poiché la miccia che fa esplodere la sua furia violenta sono le relazioni ad alta intensità emotiva vissute in famiglia».

I segnali premonitori

I principali campanelli d’allarme sono due: a volte il comportamento violento è preceduto da segni di disagio sotto forma di ritiro sociale, altre volte da un’escalation di piccoli gesti violenti. «Se la confiittualità è in atto da tempo, è probabile che vi siano già stati dei comportamenti microviolenti precedenti», spiega Freilone, «ad esempio minacce verbali, piccoli gesti aggressivi oppure, soprattutto in caso di separazione tra coniugi, comportamenti intrusivi come chiamate telefoniche ripetute e ossessive o il presentarsi ingiusti”catamente presso l’altro».

A fronte dell’escalation dei femminicidi, il nostro esperto mette in guardia le donne: «Il comportamento è predittore di se stesso e se un uomo è stato violento, in qualche modo lo sarà nuovamente. Più i comportamenti descritti sono ripetuti ed espliciti, più sono indicativi di una minaccia. Se un soggetto dice: “Ti ammazzo, ti ammazzerò prima o poi”, questo deve generare allarme». Soprattutto in caso di separazione non accettata, è importante che la separazione stessa sia netta e che neppure dietro ripetuta insistenza la donna acconsenta a rivedere l’ex marito a tarda ora, in luoghi appartati o in condizioni di non sicurezza.

I fattori predisponenti

Oltre all’alcol e alla droga, i fattori che predispongono a questi delitti efferati sono i disturbi gravi della personalità e le psicosi, come la schizofrenia.

Spiega il docente torinese: «Il paziente psicotico presenta generalmente sintomi deliranti e allucinatori tali da perdere il rapporto con la realtà; nel soggetto schizofrenico, essendo la schizofrenia una forma di psicosi, a questa perdita del rapporto con la realtà si aggiunge una grave compromissione globale del funzionamento mentale, soprattutto quando sono presenti sintomi deliranti o allucinatori». Si parla allora, impropriamente, di “raptus psicotico” e di “raptus schizofrenico”.

Il soggetto agisce in modo

violento e improvviso, ma in realtà si scopre che, da tempo, presentava una serie di disagi psicopatologici subdoli come asocialità e chiusura in sé. Oppure era già stato protagonista di microepisodi di violenza. «Vi sono poi personalità narcisistiche o egocentriche che tendono allo sfruttamento dell’altro, soprattutto se donna. Non accettano che la loro compagna sia una persona separata da loro con le sue esigenze di libertà e autonomia», aggiunge Freilone, che conclude: «Da ultimo, possono incidere le crisi depressive (definite impropriamente “raptus melancholicus”). Con tutto ciò, non deve passare il messaggio che i reati violenti siano propri dei malati mentali, che, in genere, sono soltanto persone sofferenti del tutto innocue per il prossimo. Insomma, si può essere violenti senza essere schizofrenici. Nella maggioranza dei femminicidi gli autori sono soggetti che hanno certamente dei disagi psichici, ma non un’infermità mentale».

L’appello della SIP

Nel novembre 2013, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, la Società italiana di psichiatria (SIP) aveva lanciato un appello ai magistrati e alle istituzioni affinché non adducessero più giustificazioni psichiatriche per i reati di femminicidio e ricorressero alla perizia psichiatrica solo in casi eccezionali. Per bocca del suo presidente Claudio Mencacci, la SIP aveva dichiarato: «Nella stragrande maggioranza dei casi ci troviamo piuttosto davanti a uomini che hanno comportamenti violenti, aggressivi, prepotenti, semplicemente una personalità antisociale ed egoistica, che non tollerano la possibilità per la donna di operare scelte diverse e autonome. Troppo spesso, ricorrendo a giustificazioni psicopatologiche che non hanno nessun fondamento, questi assassini si vedono rapidamente ridotte, nei diversi gradi di giudizio, le pene che erano state comminate. Gli psichiatri italiani non vogliono rendersi responsabili in nessun modo – e lo dicono con chiarezza – di fornire una pur minima sponda o giustificazione a crimini che sono da sempre odiosi».

Disagio e infermità

Chiarisce il nostro esperto Franco Freilone: «Soffrire di un disagio non vuol dire avere un’infermità mentale che riduce o esclude l’imputabilità. L’infermità mentale si riconoscerà, semmai, solo se verranno accertati autentici gravissimi disturbi (vere psicosi, ad esempio allucinazioni uditive che danno l’ordine di uccidere), analizzando una complessa costellazione psicopatologica pregressa e successiva al fatto». Inoltre, infermità mentale non significa necessariamente incapacità di intendere e di volere, che sono due aspetti distinti, anche se il primo incide sul secondo. «Esistono inoltre dei disturbi episodici da valutare caso per caso», prosegue Freilone. «Posto che tutti i codici dei Paesi evoluti prevedono degli sconti di pena in presenza di gravi infermità mentali, per fare una cultura corretta i soggetti imputati vanno valutati caso per caso senza pregiudizi né in un senso né nell’altro, ossia né pensando che quei terribili omicidi debbano essere per forza legati a un’infermità mentale, né che quest’ultima venga presa a pretesto per ridurre l’imputabilità degli assassini».


Pazzo spara fra la gente per strada

«Di solito sono personalità paranoidi che covano rabbia e rancore e vivono persecutoriamente», dice Franco Freilone, docente di psicopatologia clinica e forense all’Università di Torino. «A un certo punto passano all’atto. Accade anche fra gli studenti delle università americane, per i quali è più facile procurarsi un’arma. Emerge poi che questi soggetti erano già stati in difficoltà o si erano ritirati dalla scuola e isolati».


Che cos’è “l’effetto Werther”?

Si lega al romanzo dello scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe I dolori del giovane Werther (1774), il cui protagonista si suicida. Alla pubblicazione del romanzo seguì infatti un’ondata di suicidi fra i giovani lettori. Secondo Franco Freilone, docente di psicopatologia dell’Università di Torino, oggi «entra in gioco l’effetto mediatico: più eco ha la violenza, più i violenti la interiorizzano come una possibilità comportamentale per se stessi».


Alcuni dopo non ricordano nulla

Spesso, dopo il delitto, l’assassino afferma di non ricordare più nulla. Spiega Franco Freilone, docente di psicopatologia clinica e forense di Torino: «Dopo lo scoppio di violenza omicida sono possibili amnesie post-traumatiche. Queste amnesie sono tanto più frequenti quanto maggiore è lo spargimento di sangue. Si tratta però di un fenomeno dubbio: difficilmente si riesce a decifrare se il soggetto mente o se davvero non ricorda più l’accaduto».

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