
IL SESSO NON È PIÙ QUELLO DI UNA VOLTA
Facciamo l’amore da 200mila anni, ma i gusti sono cambiati. Per i Greci la coppia perfetta era tra uomo e fanciullo, mentre nell’antica Roma certi rapporti orali erano condannati
Terza Parte
Noi Homines sapientes facciamo sesso da quando ci siamo evoluti sulla Terra, più o meno 200mila anni fa. E visto che fisiologicamente non siamo poi tanto cambiati dai tempi delle caverne, potremmo credere che anche il nostro modo di fare sesso sia rimasto lo stesso: la sessualità non ha forse a che vedere con la nostra struttura biologica? In realtà, questo è solo un lato della medaglia: se, da un lato, siamo “programmati” perché il sesso ci piaccia (un trucchetto della natura per farci riprodurre), dall’altro le pratiche sessuali e ciò che ci piace fare a letto variano molto nelle diverse epoche e culture. Nello spazio e nel tempo cambiano fattori come il comune senso del pudore, i canoni estetici e i tabù: cambia, perciò, anche il modo in cui gli uomini e le donne vivono la propria sessualità. La pedofilia era accettata Secondo l’antico scrittore greco Plutarco, il vero amore non è quello che si prova verso le fanciulle, ma quello tra uomini. Che le società dell’antica Grecia accettassero i rapporti omosessuali, tuttavia, è vero solo in parte. In realtà, la Grecia classica esaltava come amore puro e perfetto quello tra un uomo adulto (l’erastés, “amante maturo”) e un ragazzo (l’eròmenos, “giovanetto amato”). In altri termini, la forma di omosessualità accettata ed esaltata dai Greci era solo quella della “pederastia”, ossia del rapporto intellettuale, spirituale ed erotico tra un adulto (attivo) e un adolescente (passivo); il sesso era parte di un rapporto più complesso il cui obiettivo era la formazione culturale e morale del ragazzo e la sua progressiva introduzione nel mondo degli adulti. Che questo rapporto fosse concepito come “vero amore” non deve stupire. All’epoca, scopo del matrimonio era la procreazione di figli che potessero ereditare e accrescere il patrimonio familiare e tra i coniugi raramente vigeva un rapporto d’amore, tanto più che l’unione era in realtà un contratto stipulato dalle rispettive famiglie sulla base di considerazioni sociali ed economiche.
Niente senso del pudore
Nell’antica Roma il sesso era considerato un regalo della dea Venere e un piacere della vita di cui godere senza vergogna: i Romani non avevano il senso del peccato (un concetto cristiano molto più tardo), ma non significa che fossero libertini viziosi o che non conoscessero tabù a letto. Come sottolinea la storica Eva Cantarella nel suo libro Dammi mille baci (Feltrinelli), la società latina era maschilista e fondata sul mito della virilità maschile: «Per un Romano la virilità era la massima virtù; i Romani erano educati ad assoggettare e a essere dominatori nella politica, nell’amore e nel sesso». Ogni libero cittadino di Roma (cives romanus) faceva sesso (fotuere) con uomini e donne purché socialmente inferiori – cioè donne libere, schiave, prostitute e schiavi maschi – per poter mantenere un’attitudine attiva e dominatrice: sodomizzare uno schiavo maschio o penetrare una prostituta erano considerati atti di assoluta normalità. Ciò che gli uomini dell’antica Roma non potevano accettare e quindi non facevano a letto (almeno a parole) era l’assunzione di un ruolo sessuale passivo: l’uomo doveva godere e non far godere, penetrare e non farsi penetrare. Che un uomo libero praticasse ad altri (donne o uomini) il sesso orale (cunnilingus o fellatio) era condannato e considerato inaccettabile: un Romano di duemila anni fa con molta difficoltà avrebbe “insudiciato la bocca”, organo nobile e sacro, con pratiche ritenute umilianti. Essere definito fellator (“uno che pratica sesso orale a un altro uomo”) era all’epoca un insulto offensivo. Similmente, mentre gli omosessuali attivi non sollevavano alcuno scandalo, quelli passivi erano perseguiti per legge, additati come infami e privi del diritto di votare o di rappresentarsi in un processo.
L’ossessione delle dimensioni
Nell’antichità classica, tutti, uomini, donne e bambini, erano abituati a vedere ovunque statue, disegni e bassorilievi rappresentanti il pene o il fallo (il pene in erezione), una parte del corpo di cui non si vergognavano. Nell’antica Grecia, il fallo era simbolo sacro di fecondità ed enormi sculture in legno di forma fallica erano portate in processione durante le Falloforie, feste per propiziare i raccolti. Nella cultura dell’antica Roma, l’organo sessuale maschile (mentula, virga, hasta, penis, fascinus, phallus) era ritenuto non solo un simbolo di fertilità, ma anche un amuleto capace di proteggere dalla malasorte, dal malocchio e dagli spiriti cattivi. L’incapacità di mantenere l’erezione era un incubo già nell’antichità, non diversamente da oggi: «Se tua moglie è vecchia e il membro è molle, mangia montagne di cipolle», consigliava il poeta satirico Marziale (I secolo). Non scherzava: i medici dell’antica Roma erano convinti che le cipolle fossero capaci di curare l’impotenza. In compenso le dimensioni del pene non ossessionavano affatto gli uomini di 2mila anni fa: per Romani e Greci il pene perfetto era armonico e sottile, come lo si vede rappresentato nelle statue. Solo gli schiavi, i barbari, le divinità come Priapo o i connubi uomo-animale come Pan erano rappresentati con genitali enormi. Scrive Alberto Angela in Amore e sesso nell’antica Roma (Mondadori): «Per i Greci un pene grosso e lungo è simbolo di rozzezza, volgarità e bassa estrazione sociale»; a ogni leader carismatico come Pericle, a ogni eroe di maschia bellezza come Achille era richiesto un membro delle dimensioni di un adolescente. Piccolo, in altri termini.
Autoerotismo solo per uomini
Mentre i Greci accettavano l’autoerotismo, i Romani erano meno “aperti”: la masturbazione maschile era considerata un fatto naturale e non veniva vista come una perversione da condannare, quella femminile non era tollerata perché sottraeva la sessualità delle donne al controllo degli uomini. Fu con l’avvento del Cristianesimo che sulle pratiche di autoerotismo calò un pesante velo di riprovazione perché considerate espressione di lussuria e impedimento alla procreazione. Il teologo Tommaso d’Aquino reputò l’autoerotismo un peccato grave, secondo solo all’omicidio, ma fu soprattutto dal 700 che uomini di chiesa e filosofi come Voltaire o Rousseau ne sottolinearono l’immoralità. A peggiorare le cose si misero alcuni medici, come Samuel Tissot, che scrissero trattati sulle numerose e terrificanti malattie (cecità inclusa) conseguenti alla “malsana” pratica della masturbazione. Ovviamente, senza alcun fondamento scientifico.
La posizione del missionario
La posizione “alla missionaria” è oggi quella preferita dalle coppie occidentali. Su questa posizione circolano alcune “bufale” storiche. Innanzitutto non è vero che sia stata la posizione più caldeggiata dai missionari cristiani: è il sessuologo americano Alfred Kinsey a chiamarla missionary position nel 1948, fraintendendo alcuni documenti storici. In secondo luogo, non è vero che si tratti di una posizione molto umana e poco “animalesca”, a differenza della posizione “da tergo” o “alla pecorina”: l’adozione in natura della posizione “alla missionaria” è stata osservata più volte in natura sia tra i bonobo, sia tra i gorilla. Infine, non è vero che è sempre stata la posizione preferita dagli esseri umani: i Romani prediligevano la posizione della mulier equitans in cui la donna “cavalca” l’uomo sedendosi in ginocchio o a gambe larghe, mostrando viso e petto o il “lato B”. I Greci preferivano le varianti della penetrazione “da tergo”, mentre la posizione preferita dal classico della letteratura erotica araba Il giardino profumato delle delizie sensuali, scritto nel 140 dallo sceicco tunisino Mohammed An-Nefzaui, è la posizione dok el-arz (“colpo su colpo”) in cui l’uomo siede e la donna si posiziona a cavalcioni delle sue cosce, incrociando le gambe dietro la sua schiena.
Fine