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John Bonham, le sbronze colossali, eccessi estremi, carattere irascibile e una tragica, prematura, morte appena trentaduenne

Il suo drumming è leggendario. Anche se, troppo spesso, sono state le vicende extra-musicali a catalizzare l’attenzione sul personaggio.

Parte XIII

Sbronze colossali, eccessi estremi da tipica rockstar degli anni 70, carattere irascibile e una tragica, prematura, morte appena trentaduenne, dopo aver ingollato un litro e mezzo di vodka in 24 ore. Tutto materiale ideale per consegnare ai posteri una delle più classiche leggende del rock and roll. Personaggio amabile e disponibile quando era in stato di sobrietà, si trasformava nella “Bestia” (soprannome poco lusinghiero affibbiatogli a causa delle sue “imprese”) quando, in tour, si lasciava andare (molto spesso abbindolato da “amici” compiacenti) a ogni tipo di eccesso.

La carriera di batterista John Bonham l’aveva iniziata spontaneamente all’età di cinque anni, quando, come ricorda il fratello Mick in una biografia postuma, non perdeva occasione di percuotere ritmicamente tutto quello che gli arrivava a tiro. A quindici anni ebbe la prima vera batteria, un approccio assolutamente autodidatta (nella famiglia operaia di provenienza, nella grigia e povera Birmingham dei primi anni 60, non c’erano certo soldi per prendere lezioni) e i primi gruppi locali con cui affinare tecnica ed esperienza.

Ispirato da grandi del jazz come Gene Krupa e Max Roach, mischia le esigenze ritmiche piuttosto elementari di queste prime esperienze per le quali non erano necessarie le doti a cui ci abituerà successivamente, con l’insegnamento che arriva da questi maestri di tecnica e gusto, dal cui ascolto apprende stile e segreti. Suona con una lunga serie di piccole beat band, tra cui i Senators, con i quali nel 1964 registra anche un singolo, She’s A Mod. Poi approda alla blues band Crawling King Snake (dal titolo di un classico blues reinterpretato da John Lee Hooker, Muddy Waters e a fine anni 60 anche dai Doors): lì canta un certo Robert Plant, che quando nel 1967 va a formare la Band of Joy lo chiama con sé. La band registrerà una serie di brani (poi ristampati) e diventerà abbastanza popolare nel giro mod/beat/psichedelico di Birmingham con un repertorio di brani soul e heavy blues. Quando Jimmy Page lascia gli Yardbirds e decide di proseguire con l’originale nuovo nome New Yardbirds, chiama Robert Plant che insiste per portare con sé anche John. Inizialmente dubbioso e riluttante, nonché allettato da altre proposte (Joe Cocker e Chris Farlowe tra gli altri), alla fine John cede ed entra nei neonati Led Zeppelin: con loro, vivrà una delle più fulgide e conosciute vicende del rock lasciando una serie di capolavori e un contributo decisivo alla storia dello strumento in questo ambito.

John Bonham è stato uno di quei batteristi il cui stile e il cui apporto artistico alla band di appartenenza hanno dato un contributo sostanziale da un punto di vista compositivo (anche se non sempre accreditato in tal senso). Stessa sorte capitata ad altri rappresentanti di primo piano dello strumento (immaginiamo Tomorrow Never Knows o Come Together dei Beatles senza il drumming di Ringo Starr o a Honky Tonk Women dei Rolling Stones senza quello di Charlie Watts). Proviamo a pensare all’apparentemente banale, ma fulminante e geniale nella sua immediatezza, attacco di Rock’n’Roll (per fortuna, ufficialmente anche suo), all’apporto percussivo (spesso ottenuto su mezzi di fortuna) in brani come Ramble On (pare a mani nude su una custodia di chitarra) o alla ritmicamente complessa Four Sticks, che si destreggia tra un 5/8 e un 6/8. Tutte prove di una versatilità e di una preparazione non comuni per chi viene spesso derubricato a semplice batterista “hard” o “heavy”. E che dire della capacità di rendere lineare un tempo spezzato come quello di Black Dog, dove potenza e raffinatezza stilistica si abbinano in modo perfetto? Ma è soprattutto cercando in episodi considerati spesso “minori” che troviamo momenti di pura eccellenza.

Valga per tutti l’interminabile cavalcata di oltre dieci minuti di Achille’s Last Stand (PRESENCE), dove John si produce in un anfetaminico tempo di stampo funk interrotto da stacchi imperiosi, precisissimi, terzine raffinatissime. Metronomico, in perfetto equilibrio tra un accompagnamento essenziale e un ruolo da protagonista, pur nel muro di chitarre di Page. Una prova di forza e di rara classe. Curiosa invece la grazia inaspettata con cui si cimenta nel ritmo samba che s’inserisce a sorpresa in Fool In The Rain (IN THROUGH THE OUT DOOR) per poi tornare con una millimetrica, spaventosa, rullata a valanga all’originario ritmo mid tempo.

Ovviamente, la sua prova più nota è la versione live di Moby Dick (originariamente su LED ZEPPELIN II) che dai quattro minuti originali in studio si trasformava dal vivo in una mezz’ora di assolo, talvolta concluso a mani nude (spesso sanguinanti), dopo aver lanciato le bacchette al pubblico. Pura spettacolarizzazione ed effettistica, che da un punto di vista strettamente artistico è sempre stata molto fine a se stessa.

La sua morte chiuse la carriera dei Led Zeppelin: con un gesto di raro coraggio e grande coerenza, soprattutto in un contesto come quello del rock business, sempre incline e ben disposto a portare avanti esperienze finite o moribonde, nel momento in cui sono ben retribuite e sempre seguite dai fan, il 4 dicembre del 1980, due mesi dopo la scomparsa di John, i tre superstiti emisero un comunicato stampa con cui rendevano pubblica la loro decisione finale: “Desideriamo che si sappia che la perdita del nostro caro amico e il profondo rispetto che nutriamo per la sua famiglia, insieme al senso di armonia indivisibile avvertito da noi e dal nostro manager, ci hanno indotti a decidere che non potremmo continuare quali eravamo prima”.

Una perdita tragica, triste ed evitabile, come la maggior parte dei lutti che ha subito il rock in quegli anni.

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