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LA BATTAGLIA DI CANNE, IL CAPOLAVORO MILITARE DI ANNIBALE CONTRO I ROMANI

È il 2 agosto 216 a.C.: con una geniale manovra a tenaglia Annibale, il leggendario condottiero punico, decretò la peggior sconfitta militare nella storia di Roma

È difficile credere che quella che oggi appare come una placida e rigogliosa campagna pianeggiante, oltre duemila anni fa sia stata il teatro di una delle battaglie più sanguinarie della storia. Canne della Battaglia, a pochi chilometri da Barletta, è infatti il luogo in cui, durante la Seconda guerra punica, l’esercito di Annibale riuscì ad annientare le legioni romane, costringendole a una sconfitta di portata storica. Mai nessuno aveva osato sfidare Roma come fece il grande generale punico, il quale arrivò a insidiare l’Urbe fin dentro il proprio territorio. E dire che le forze in campo nel corso della battaglia erano assolutamente impari: Annibale disponeva all’incirca della metà degli uomini rispetto al suo nemico. Eppure questo non bastò ai Romani per avere la meglio sul grande condottiero cartaginese.

COME SI ARRIVA ALLA BATTAGLIA

Dopo aver conquistato l’Italia nel III sec a.C., i Romani volevano allargare il loro dominio al resto del Mediterraneo. Per fare ciò entrarono in conflitto con Cartagine, antica città di origine fenicia, che si era sviluppata secoli prima sulle coste dell’attuale Tunisia. I Cartaginesi non riuscirono a fermare l’avanzata di Roma che, dopo oltre venti anni di scontri combattuti essenzialmente sul mare, vinse la Prima guerra punica diventando così la maggiore potenza del mondo antico. Nonostante la sconfitta, Cartagine non si rassegnò all’idea di ricoprire una posizione subordinata rispetto a Roma. Per risollevare le proprie sorti decise così di affidare il potere alla famiglia aristocratica dei Barca, da sempre sostenitrice di una politica di espansione coloniale nel Mediterraneo. Alla famiglia appartenevano personaggi leggendari come Amilcare, Asdrubale e Annibale. Proprio quest’ultimo, nel 221 a.C., salì al comando dell’esercito cartaginese e decise che era giunto il momento di scatenare la guerra contro Roma. La scintilla che accese le ostilità fu la conquista della città iberica di Sagunto, alleata dei Romani. Di fronte a questo atto di sfida, nel 218 a.C., Roma dichiarò guerra a Cartagine. I Romani erano convinti di eliminare la pratica in poco tempo e a lungo sottovalutarono il generale cartaginese. Annibale era invece un condottiero scaltro e geniale, capace di destabilizzare i suoi rivali con scelte sempre coraggiose e sorprendenti. Capì subito che affrontare un’altra guerra per mare sarebbe stato un errore: la flotta romana era ormai diventata invincibile. Scelse quindi di attaccare Roma dove i Romani meno si aspettavano: a casa loro. Annibale partì verso l’Italia a capo di un imponente esercito e con una trentina di elefanti da guerra, superò i Pirenei, scavalcò le Alpi e penetrò in Pianura Padana, contro ogni previsione. Aveva perso molti uomini durante quell’incredibile impresa ma a quel punto era giunto nel cuore del territorio romano. Ed era pronto a dare battaglia.

ANNIBALE IN ITALIA

L’avanzata del condottiero verso Roma iniziò subito in maniera esaltante. Nelle battaglie sul Ticino e sul Trebbia sbaragliò i Romani che forse aveva valutato con leggerezza le sue capacità belliche. Fino a quando, dopo la pesantissima sconfitta del Lago Trasimeno, in cui l’esercito romano subì oltre 20.000 perdite, il Senato comprese che era arrivato il momento di mettere fine all’avanzata dei Cartaginesi e mise insieme un esercito enorme, il più grande che Roma avesse mai schierato in battaglia.

GLI ESERCITI A CONFRONTO

I Romani affidarono la gigantesca macchina da guerra a due consoli: Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. Questa dualità rappresentò il primo grande errore compiuto dal Senato romano. Infatti i due condottieri avevano visioni opposte rispetto a come affrontare il generale africano. Emilio Paolo era un aristocratico con un carattere prudente che non voleva affrontare i Cartaginesi in campo aperto. Varrone, invece, aveva origini popolari e un temperamento più aggressivo. Voleva la guerra e voleva distruggere Annibale. Due modi opposti di affrontare un nemico leggendario che non giovarono in alcun modo alla causa romana. Inoltre i due consoli si alternavano costantemente alla guida dell’esercito e questo creò confusione tra i soldati. Si arrivò così al 2 agosto del 216 a.C., il giorno della battaglia. Gli storici la descrivono come una giornata caldissima e ventosa. I due eserciti si ritrovarono l’uno di fronte all’altro nei pressi del villaggio di Canne, nell’alta Puglia, un’area pianeggiante delimitata dal fiume Ofanto e da alcune colline. Roma schierò sul campo circa 80.000 fanti e 6.000 cavalieri. Di fronte, i Cartaginesi potevano contare su uno schieramento composto da varie etnie, costituito da circa 35.000 fanti e da 10.000 eccellenti cavalieri numidi, celti e iberici. Esistono diverse teorie su quanti fossero i reali numeri in gioco, ma quel che è certo – e che tutte le fonti riportano – è un’assoluta disparità tra i due eserciti, nettamente a favore dei Romani. Il risultato sembrava già scritto prima ancora che la partita venisse giocata. Eppure, come è noto, le cose non andarono così.

IL CAMPO DI BATTAGLIA

Già il giorno precedente la battaglia, Annibale aveva tentato di provocare lo scontro, schierando le truppe nei pressi del fiume Ofanto ma Emilio Paolo, come previsto, non aveva accettato la sfida. Il 2 agosto, invece, al comando c’era Varrone e lui ovviamente non vedeva l’ora di guerreggiare. I Romani erano felici del campo di combattimento: pianeggiante e senza luoghi dove fosse possibile per Annibale compiere i suoi micidiali agguati. Inoltre Varrone ed Emilio Paolo scelsero di posizionarsi a nord, con il fianco destro che guardava al fiume, credendo di poter spingere i Cartaginesi verso l’acqua, intrappolandoli in una morsa letale. Annibale dal canto suo non era preoccupato per la sua posizione molto vicina al fiume. Anzi, pensò che proprio a causa della presenza dell’Ofanto i Romani non avrebbero potuto accerchiare l’esercito cartaginese. Inoltre Annibale scelse la parte sud per sfruttare sia la presenza delle colline sia quella del vento che, soffiando alle spalle del suo esercito, avrebbe gettato la polvere del terreno in faccia ai Romani. All’alba l’esercito di Varrone ed Emilio Paolo attraversò l’Ofanto e si dispose secondo lo schieramento di battaglia. I Romani avevano posto alla loro sinistra la cavalleria comandata da Emilio Paolo, al centro l’imponente fanteria legionaria mentre sull’ala destra dello schieramento c’era Varrone a capo della cavalleria alleata.

IL VANTAGGIO STRATEGICO DI ANNIBALE

Mentre i romani disponevano il loro esercito, Annibale era salito sulla collina dell’antico villaggio di Canne da cui poteva osservare il campo di battaglia e la disposizione degli eserciti. Un vantaggio enorme, fondamentale per il successo finale. Di fronte a lui si stagliava l’immenso muro dell’esercito romano che occupava un fronte di circa tre chilometri. Una visione simile avrebbe potuto spaventare anche il più navigato dei guerrieri. Ma Annibale era fiducioso e aveva un piano ingegnoso che stava per mettere in pratica. Fece disporre il suo esercito come aveva progettato. A sinistra sistemò la cavalleria gallica e iberica guidate dal fratello Asdrubale. Al centro i 22.000 fanti iberici e celti, fiancheggiati da altri due corpi di fanteria pesante costituiti da 10.000 libici. Sulla destra dello schieramento cartaginese posizionò la cavalleria numidica guidata da suo nipote Annone. A quel punto i due eserciti erano pronti a impugnare le armi. Ad attaccare furono le fanterie leggere mentre gli arcieri, i frombolieri e i lanciatori di giavellotto iniziarono a scagliare micidiali dardi. La battaglia si spostò quindi sui fianchi dello schieramento dove le cavallerie arrivarono presto allo scontro. Gli squadroni di Asdrubale caricarono con violenza i cavalieri di Emilio Paolo che, numericamente inferiori, vennero spazzati via dalla furia cartaginese. Dall’altra parte Varrone e i suoi alleati riuscirono a resistere agli assalti della cavalleria numidica ma rimasero impantanati nel confronto.

UNA MICIDIALE TENAGLIA

Al centro, le due fanterie vennero infine a contatto. I soldati romani avanzarono con brutalità, colpendo a ripetizione con i loro gladi, e iniziarono a inserirsi nel cuore dello schieramento cartaginese. I fanti iberici e i celti a quel punto retrocessero, dando l’idea di essere in difficoltà. I Romani attirati dalla prospettiva di una facile vittoria, accentuarono la pressione, penetrando sempre più nello schieramento nemico. Convinti della loro supremazia e accecati dal furore della battaglia, non si resero conto che invece stavano cadendo dritti nella trappola di Annibale. Infatti la linea del fronte cartaginese, rinculando, assunse una forma concava dentro la quale finì per accalcarsi tutta la fanteria romana. A quel punto Annibale fece salire i due corpi di fanti libici sui fianchi bloccando ogni via di fuga laterale ai legionari. Nello stesso tempo la sua cavalleria, dopo aver sconfitto Emilio Paolo e costretto alla fuga Varrone, si mosse alle spalle di ciò che restava dell’esercito romano che a quel punto venne stretto in una morsa mortale. Panico, calca, impossibilità di manovra, assenza di vie di fuga, polvere, caldo asfissiante e nemici assetati di sangue trasformarono il combattimento in un infernale massacro.

DOPO LA SCONFITTA

La sera di quel 2 agosto del 216 a.C., dopo nove infinite ore di combattimento, Roma dovette accettare la più sanguinosa sconfitta della sua storia. Nella geniale manovra a tenaglia studiata da Annibale, un vero capolavoro di tattica militare, morirono il console Emilio Paolo, quasi tutti gli ufficiali e ottanta senatori. Ma soprattutto persero la vita oltre 50.000 soldati. L’imponente macchina da guerra romana era stata completamente fatta a pezzi. Annibale invece aveva perso poche migliaia di uomini ottenendo il più brillante successo della sua carriera militare. Eppure, dopo Canne, il grande condottiero fece l’errore più grande della sua vita, rinunciando a marciare su Roma per dare il colpo di grazia alla Repubblica. Quella scelta poco coraggiosa segnò alcuni decenni più tardi la definitiva fine di Cartagine, su cui calò la vendetta di Roma per mano di Scipione l’Africano.

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