
LA RIVOLTA FANTASMA
Falsi massacri e DISINFORMAZIONE: così, in Romania, la RIVOLUZIONE contro Ceauşescu si trasformò in colpo di Stato
La morte di Nicolae Ceauşescu, “il tedoforo dei tedofori”, “il genio dei Carpazi” (come amava definirsi e farsi definire), e di sua moglie Elena, “l’ingegnere” che a malapena sapeva leggere e scrivere, segnò la fine di un capitolo di Storia che la Storia stessa si era dilettata a scompigliare e a confondere. L’esecuzione del conducator (“duce”) della Romania, il giorno di Natale del 1989, seguì di appena un mese, o poco più, la sua scontata riconferma alla guida del Partito comunista nazionale: durato 6 ore, in una sala straripante di dirigenti e funzionari, l’intervento di Ceauşescu era stato interrotto da 125 ovazioni.
Circa mille chilometri più a ovest il Muro di Berlino si stava sgretolando e, con esso, un pezzo di mondo: nessuno potrà mai dire se al dittatore rumeno, in quegli ultimi istanti di gloria, fosse balenata l’idea che alcuni di coloro che lo stavano applaudendo avrebbero presto tramato contro di lui.
Ascesa
Nato nel 1918, figlio di contadini, apprendista calzolaio all’età di 11 anni, arrestato a 15 durante uno sciopero con l’accusa di essere un agitatore comunista (la Romania non era ancora sotto l’influenza sovietica), Ceauşescu si distinse tra le file del partito per l’intelligenza politica: sebbene semianalfabeta, era capace come pochi di fiutare e anticipare umori e idee dell’apparato comunista. Nel 1965 salì al vertice del partito e incoraggiò una nuova Costituzione dello Stato, che da Repubblica popolare divenne Repubblica socialista. Nel 1967, nominato presidente, alimentò una politica autonomista (e persino una certa diffidenza) nei confronti dell’Urss. Per oltre vent’anni nessuno avrebbe osato contestare la sua egemonia, garantita da una polizia segreta, l’implacabile e brutale Securitate, che con 11mila agenti e mezzo milione di informatori spiò a lungo persino i figli della coppia presidenziale.
Assistiti da un gigantesco apparato mediatico, Nicolae ed Elena si cucirono addosso un’immagine di perfezione. «Ceauşescu», racconta l’ex generale rumeno Ion Pacepa, oggi cittadino statunitense, «era inebriato dal culto della personalità. Il presidente sognava di diventare un Napoleone comunista, e finì per fare del suo Paese un monumento a se stesso». Pretenzioso e paranoico (vedeva nemici ovunque) disponeva di 62 ville e di 365 vestiti (uno al giorno). Elena, che aveva sposato nel 1946, ex tessitrice, si costruì una reputazione da scienziata: riuscì persino a far tradurre all’estero un trattato di chimica scritto da un anonimo ricercatore e firmato col proprio nome. Divenne insensibile e spietata, forse più del marito. Paradossalmente, fu proprio questa catena di montaggio della comunicazione e della mistificazione a far precipitare nel baratro la coppia.
Effetto domino
Fu a Timişoara che, la notte del 15 dicembre 1989, in un susseguirsi di fatti e bugie, iniziò la fine di Ceauşescu. Quanto le proteste scoppiate in quella città multietnica (appartenuta all’Ungheria fino al 1918) siano legate alla caduta del dittatore, e quanto invece dipese dal caso, è un rebus ancora non risolto. La perestrojka (le riforme economiche e sociali che stavano investendo l’Urss) era ormai irrefrenabile e Michail Gorbaciov stava facendo pressing sui Paesi del blocco orientale. Con la Romania trovò qualche resistenza.
Fra i leader comunisti, Ceauşescu era uno dei più accesi critici del cambiamento, ma molti dirigenti sapevano che il riformismo di Gorbaciov li avrebbe costretti a fare fagotto. Il pretesto della rivolta di Timişoara fu un episodio all’apparenza insignificante: la rimozione – chiesta dalle stesse autorità religiose – del pastore evangelico ungherese László Tőkés. La popolazione circondò la casa di Tőkés per impedire alla polizia di eseguire l’ordinanza. La folla crebbe e il giorno dopo piccoli gruppi di dimostranti cominciarono a gridare “Libertà” e “Abbasso Ceauşescu”. Chi spostò il mirino della protesta da Tőkés al dittatore è uno degli interrogativi tuttora aperti.
Fischiato
Al di fuori di qualche ipotesi, non ci sono indizi per sostenere che l’operazione fosse stata predisposta in collaborazione con altri Stati. Senz’altro ci furono contatti segreti fra Mosca e alcuni dirigenti rumeni, ma fino a che punto questi contatti influirono sullo svolgersi degli eventi è difficile dirlo. La spiegazione, forse, è più semplice: nel 1989 la Romania aveva annullato il debito estero, ma per farlo aveva affamato la popolazione, perdendo il favore della base, già eroso, e alimentando ampie sacche di dissenso». Quel dissenso, forse assecondato da forze straniere, era pronto a esplodere.
I manifestanti a Timişoara non erano più di 2mila, molti di loro contadini e operai (ai quali si aggiunsero studenti e intellettuali): presero d’assalto un albergo e saccheggiarono la sede del partito. La polizia intervenne prima con gli idranti, poi sparando. Morirono tra le 20 e le 60 persone.
Il 19 dicembre, dopo una visita lampo in Iran, Ceauşescu fece organizzare una manifestazione nella capitale Bucarest «per dimostrare il vasto sostegno», spiega il giornalista inglese Peter Molloy, «di cui riteneva ancora di godere». Ma nel frattempo, riferisce il cronista britannico, frange di oppositori erano giunte da Timişoara e si misero a fischiare e a inveire contro il comunismo, imitati dalla piazza. «Lo sconcerto sul volto di Ceauşescu», continua Molloy, «era una spia della vulnerabilità del regime».
Strage? A quel punto successe l’imprevedibile: i più influenti media occidentali, dal Washington Post all’agenzia Reuters, citando voci mai verificate, raccontarono della “carneficina di Timişoara”. Dice lo scrittore e giornalista Claudio Fracassi: «Due agenzie di stampa, la iugoslava Tanjug e la tedesca Adn, lanciarono l’allarme per una città ormai distrutta. I toni erano apocalittici: l’Europa nazista, si disse, non aveva mai visto analoghe scene di sterminio».
Ai media rumeni e internazionali fu distribuito un video in cui comparivano corpi mutilati. I caduti, scrissero i giornali, erano stati 4.632, senza contare i 13mila arresti e le 7mila condanne a morte. Ma quei corpi, come scoprirono Michele Gambino e Sergio Stingo, due cronisti italiani che raggiunsero Timişoara a proprie spese, erano cadaveri di senzatetto disseppelliti da un cimitero, probabilmente – si ipotizzerà in seguito – dai militari. Golpe. Abbiamo chiesto ad alcuni rumeni che oggi vivono in Italia che cosa ricordino di quella vicenda: per tutti, le migliaia di morti ci furono davvero, ma pochi possono affermare di averli visti o di avere parenti fra le vittime. Eppure proprio quella bufala, secondo alcune ricostruzioni, sarebbe servita come pretesto per il colpo di Stato, guidato dagli avversari di Ceauşescu all’interno del Partito comunista. L’esercito poté così intervenire e dare il colpo di grazia al conducator contando sull’appoggio della popolazione e dell’opinione pubblica internazionale, sconvolti dalle notizie di Timişoara.
Ceauşescu era ormai in trappola. Il 22 dicembre i soldati che lo proteggevano ricevettero l’ordine di ritirarsi. Nicolae ed Elena tentarono la fuga in elicottero, ma furono arrestati e portati in una caserma di Târgovişte, a nord di Bucarest. Il ministero della Difesa, dove i vertici dell’esercito stavano prendendo il controllo della situazione, incaricò un magistrato trentenne, Dan Voinea, di imbastire rapidamente un processo contro la coppia presidenziale. Si temeva che la Securitate potesse intervenire per salvarlo (ci furono scontri, ma molti agenti capirono presto che il dittatore era finito). Per evitare fughe di notizie si fece a meno di un dattilografo e le accuse vennero scritte a mano: genocidio, crimini contro lo Stato e distruzione dell’economia nazionale.
La mattina di Natale, il magistrato fu scortato nella caserma dov’erano rinchiusi i due: al suo fianco c’erano ufficiali che per anni avevano lavorato spalla a spalla con il dittatore.
Giustizia lampo
Ceauşescu, con la moglie, fu condotto nella piccola stanza dove fu celebrato il processo che si basò su ulteriori (false) notizie. Per sentenziare “l’immediata esecuzione degli imputati” bastarono pochi minuti. Tutto doveva svolgersi in fretta evitando un processo pubblico. Elena e Nicolae furono trascinati in un cortile della caserma, dove ad attenderli c’era il plotone di esecuzione. Lui accennò l’Internazionale, lei accusò gli ufficiali di infedeltà. Partirono le raffiche: uno dei soldati riferirà di aver sparato 29 cartucce. I cadaveri, ripresi da una telecamera, furono portati allo stadio di Bucarest e poi sepolti in un cimitero civile.
Il 1° marzo 1990 il colonnello Gica Popa, che aveva presieduto il tribunale, si tolse la vita. Voinea, scampato a un attentato, rivelò i nomi di chi aveva cospirato contro il dittatore: tra loro, disse, il futuro primo presidente della Romania post-comunista, Ion Iliescu, e altri dirigenti del regime riciclatisi prima nel Fronte per la salvezza nazionale, che gestì la turbolenta fase di transizione, poi nei successivi governi democratici.