
LA VITA SCOMODA
Come se la PASSAVA chi non aderiva al FASCISMO? E a quale DESTINO andavano incontro quei pochi che avevano il coraggio di OPPORSI apertamente?
Parte XII
Distanti. Non ostili, ma neppure sostenitori: la gran parte degli italiani, durante il fascismo, subì il regime in maniera passiva. Compressa tra i (pochi) sostenitori e gli (ancor meno) antifascisti, la maggioranza si adeguò tentando di evitare le conseguenze peggiori. Un rapporto riservato della polizia dopo la grande parata del 1932 per il decennale della Marcia su Roma segnalava che, anche tra quanti vi parteciparono, il sentimento prevalente nei confronti del fascismo era un interesse molto tiepido. In Italia, insomma, i più avevano la tessera del partito semplicemente per non complicarsi la vita.
«Mio padre era di idee socialiste, ma non si interessava di politica», ricorda l’ultranovantenne Vladimiro, figlio del proprietario di un negozio nel centro di Milano. «Subivamo pressioni continue, ma blande. Ci chiedevano di iscriverci al partito o di abbonarci al loro giornale. Venivano in negozio, insistenti ma mai aggressivi. L’unico vero spavento lo prese mia sorella: aveva 18 anni e i guanti rossi. Venendo in negozio incontrò una manifestazione di fascisti e la insultarono pesantemente perché aveva un po’ di rosso addosso. Tornò a casa terrorizzata e piangente».
L’apparenza era fondamentale. «Anche chi non era fascista portava il distintivo, sennò lo prendevano a cazzotti. E non solo nei primi anni del regime», raccontava fino a pochi anni fa un altro testimone dell’epoca, Angelo Limido, nato nel 1912.
La tessera del pane
Dal 1926 chi non era fascista ebbe molte difficoltà a intraprendere la carriera diplomatica. E tre anni dopo, 40 prefetti sprovvisti di tessera furono sostituiti da altrettanti colleghi iscritti al partito. A partire dai primi Anni ’30, per i dipendenti pubblici (dai funzionari agli impiegati delle Poste, dai ferrovieri agli insegnanti) l’iscrizione al Partito nazionale fascista (Pnf) divenne l’unico modo di salvare il posto. La tessera fascista fu ribattezzata “la tessera del pane” e la sigla Pnf venne declinata come “Per necessità familiari”. In pubblico, la prudenza suggeriva di non parlare di politica e di ricordarsi di alzarsi in piedi e levare il cappello quando alla radio parlava il duce.
La vita quotidiana era molto dura e le persone normali erano per lo più impegnate a sopravvivere. Questo non favoriva di certo l’adesione convinta al fascio.
In alcuni casi i neoiscritti approfittarono della tessera per lucrare soldi e favori. Per arginare il fenomeno, Giovanni Giuriati, segretario del partito fra il 1930 e il 1931, bloccò i nuovi ingressi e diede il via a un’epurazione che portò gli iscritti da un milione a 660 mila. L’opera di bonifica durò poco: con l’arrivo di Achille Starace, succeduto a Giuriati, le porte si riaprirono, così che nel 1939 gli iscritti erano risaliti a 2 milioni e mezzo.
Croce contro fascio
Il controllo sulle masse esigeva anche azioni più decise, volte ad annientare ogni tipo di opposizione. «Quando è salito il fascio avevo dieci anni», raccontava Angelo Limido. «Mi ricordo i pestaggi e l’olio di ricino. Abitavo sopra un circolo operaio, di fronte ai pompieri. Quando annunciarono che stavano arrivando i fascisti, i pompieri si misero a difesa del circolo con le pompe: se si fossero avvicinati li avrebbero annegati. Tutti i circoli milanesi furono bruciati. Noi invece ci salvammo».
Ma la chiusura delle sedi sindacali, delle società operaie di mutuo soccorso e dei partiti che non fossero quello fascista, non portò a un incremento dell’affluenza nelle file del fascio, ma solo al rilancio di altri luoghi di aggregazione, prime fra tutti le parrocchie. Così, dopo gli anni della grande fuga verso i partiti anticlericali – quello socialista in testa – le chiese tornarono a riempirsi e divennero i primi centri dell’antifascismo. Infatti, se da un lato i cattolici plaudivano al regime per aver firmato nel 1929 il Concordato con lo Stato del Vaticano, dall’altro condannavano la sua concezione totalitaria. Non a caso, anche dopo il ’29 la Chiesa e le organizzazioni cattoliche furono prese di mira e ostacolate in quanto unico baluardo rimasto alla fascistizzazione della società.
Deportati in patria
La mano del regime perdeva però ogni moderazione nei confronti degli antifascisti che cercavano di opporsi in maniera decisa. La polizia non si risparmiava contro chi finiva nelle liste nere e, per sanzionarli con più forza, nel 1927 entrò in funzione il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Fino al 1943 davanti ai giudici speciali furono deferiti 15.806 antifascisti (fra cui 748 donne), si celebrarono 5.619 processi e furono comminate 160mila ammonizioni (che limitavano la libertà personale). La pena più dura, ovvero il confino, fu decisa in 12.330 casi nei confronti di antifascisti attivi politicamente.
Attraverso viaggi durissimi, sottoposti a umiliazioni e violenze, i confinati – veri e propri deportati in patria – raggiungevano le isole destinate a fare da Cayenna italiana. Un idraulico di Modena, Sergio Golinelli, partito dall’Emilia in ottima salute, arrivò a Ponza dopo 26 giorni, con una “febbre altissima e probabile paratifo” si legge nei documenti ufficiali. Aveva 21 anni e morì due settimane dopo in ospedale, accanto alla madre chiamata ad assisterlo. E non mancavano, per i deportati, vessazioni e aggressioni fisiche da parte dei fascisti di guardia. A Lipari, le squadracce pestarono a sangue i confinati che osarono reagire.
Temendo le critiche internazionali, il fascismo tentò di accreditare il confino come una sorta di vacanza, una “villeggiatura”. L’idea venne da Arturo Bocchini, efficientissimo capo della polizia, che convinse Mussolini che inviare i confinati sulle più belle isolette italiane avrebbe giovato all’immagine del regime. Nel settembre del 1929 il giornalista Mino Maccari, di ritorno da Lipari e Ponza, scrisse una serie di articoli in cui le due isole venivano descritte come luoghi ameni dove i confinati godevano, in maniera immeritata, delle bellezze della natura e dell’ospitalità degli abitanti.
Ricomincio dal triciclo
Né, al ritorno dai luoghi di detenzione, la vita poteva ricominciare come prima. Perché chi era stato in carcere o al confino per motivi politici trovava tutte le porte sbarrate.
È esemplare il caso di Angelo Aliotta, classe 1905, arrestato nel 1927 e condannato a tre anni di reclusione perché sorpreso a partecipare a una riunione segreta del partito comunista. «Quando lasciò il carcere di Asti, e dopo aver scontato altri due anni di libertà vigilata, non riuscì più a trovare lavoro», raccontava il figlio Gianfranco. «I fascisti gli avevano fatto terra bruciata intorno: nessuno osava assumerlo. Alla fine si comprò un furgoncino, una specie di grosso triciclo a pedali, e con quello girava tutti i mercati della zona per vendere prodotti di maglieria». Dopo l’8 settembre 1943 entrò nella Resistenza nell’Oltrepò, ma fu catturato e fucilato. Come molti altri giovani.
Gli agenti segreti del duce
L’Ovra fu la polizia segreta del regime. Istituita nel 1927, fu incaricata di reprimere ogni dissidenza, in primo luogo quella comunista. L’azione dei suoi circa 400 agenti, che si avvalevano di migliaia di informatori, restò sempre avvolta nel mistero e la sigla stessa non fu mai chiarita. Per alcuni significava Organizzazione di vigilanza e repressione dell’antifascismo, per altri Organo per la vigilanza sui reati antistatali. Si dice che fu Mussolini stesso a inventarne il nome quando, davanti a un rapporto sull’irruzione in un covo antifascista, cancellò la parola polizia e la sostituì con Ovra.
Tentacoli
Non è escluso che il duce, da ex giornalista, abbia giocato sull’assonanza della sigla con il termine “piovra”, per significare la capacità tentacolare di raggiungere ovunque i nemici.
I boy-scout che dissero no
Nel 1927 il regime soppresse lo scoutismo a favore dell’Opera nazionale balilla, costringendo anche papa Pio XI a sciogliere l’Associazione scoutistica cattolica italiana (Asci). Tutti balilla, allora? Non proprio, anche qui ci fu chi si ribellò. In varie città alcuni gruppi continuarono a riunirsi clandestinamente, tra cui quello milanese delle cosiddette Aquile Randagie, così chiamati perché non avevano un ritrovo fisso e comunicavano tempi e luoghi degli incontri usando messaggi in codice.
Opere buone
Dopo l’8 settembre 1943 le Aquile Randagie fondarono, con altri gruppi, l’Opera scoutistica cattolica aiuto ricercati, che favorì l’espatrio in Svizzera dei perseguitati dal nazifascismo. Tra loro, anche Indro Montanelli.