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LED ZEPPELIN II, THE BRITISH INVASION-pt2

Sfruttare l’onda creata dal debutto, ma soprattutto prendersi l’America. Difficile? Non per loro

Parte III

Dal dicembre 1968 all’agosto 1969, i Led Zeppelin sono praticamente sempre in tour. Iniziano col Nord America (fino a febbraio), poi suonano nel Regno Unito e in Scandinavia (tra marzo e aprile), quindi di nuovo negli States, fino a maggio inoltrato, per il tour primaverile. Nel mese di giugno tengono un tour inglese, seguito tra luglio e agosto da un’ennesima sortita a stelle e strisce. Il piano del manager Peter Grant è evidente: sfruttare l’onda favorevole del debut album, che così bene ha fatto in classifica, per affermarsi tra i grandi del rock. Per riuscirci, gli Zeppelin sanno perfettamente che devono mettersi d’accordo soprattutto con lo zio Sam. Come i quattro abbiano poi fatto, in tutto ciò, a trovare anche il modo di registrare il loro secondo album, è un mistero.

Le canzoni prendono di solito forma dai riff di Jimmy, spesso emersi durante le improvvisazioni sul palco della sempre più estesa Dazed And Confused. Ogni idea brillante viene memorizzata dal gruppo e, da lì, si parte per sviluppare un brano destinato a essere poi inciso in un paio di ore nello studio trovato libero nella città in cui la band deve esibirsi quella sera, nell’arco temporale che va tra aprile e agosto del 1969. Come ricorda Plant, “era davvero folle: magari scrivevamo la base in una camera d’albergo, registravamo la ritmica a Londra, la voce a New York, l’armonica a Vancouver e poi tornavamo a New York per il missaggio”.

Il gruppo, intanto, prende consapevolezza della sua forza creativa, limitando le influenze blues che avevano dominato il primo album. Le 12 battute resistono solo nel classico di Willie Dixon che chiude la scaletta del nuovo lavoro e in un paio di ispirazioni venute a galla solo successivamente (ma talmente evidenti da pretendere una revisione dei crediti di composizione). Le canzoni originali, metà da attribuire a Page e metà a tutto il gruppo, formano un insieme molto più aggressivo e mascolino, marcando maggiormente le caratteristiche del gruppo. La leadership del chitarrista è evidente, ma le pur eccellenti parti solistiche risultano meno determinanti alla costruzione del suono rispetto ai suoi riff, supportati da una ritmica straordinaria: Bonzo è un batterista potente e innovativo per quanto selvaggio, mentre Jones costruisce linee di basso piene di note e con alcuni giri geniali. A suggellare il tutto, Robert Plant con la sua voce acuta, sensuale e sospirosa. Una grande novità riguarda anche i testi. “Fino a quel punto”, ricorda Page, “i testi li avevo scritti io, Robert ancora non lo aveva fatto. E lo prendevamo in giro per questo”.

L’album si apre con Whole Lotta Love: riff assassino, voce stridula, batteria tosta che si concede frequenti rullate. Poi una parte intermedia sperimentale, fatta di echi e riverberi buttati dentro dal tecnico Eddie Kramer (qui al suo primo di una lunga serie di dischi alla console degli Zeppelin), mentre Page utilizza uno strumento inconsueto come il theremin. La parte centrale sarà tuttavia editata nelle trasmissioni radiofoniche, dove il brano diventa una hit, così come lo sarà il singolo. Per contro, la canzone aprirà strascichi legali da parte del bluesman Willie Dixon, che solo in seguito otterrà un credito come co-autore per via delle evidenti similitudini col suo brano You Need Love.

Analogo destino per The Lemon Song, parte della quale attinge a piene mani a Killing Floor di Howlin’ Wolf (anche lui accreditato solo dopo un passaggio in tribunale). Una canzone sporca (anche in senso figurato, nel testo), con il basso che doppia il giro di chitarra. Si alternano parti su tempi diversi, accelerazioni e rallentamenti, con gli strumenti che zompettano dappertutto e un interludio cantato su basso, batteria e niente accordi di chitarra, ma solo esercizi solistici.

In mezzo a queste due canzoni, What Is And What Should Never Be: parte lenta, con il canto di Plant soft e sensuale e un elegante giro di basso, ma poi, di colpo, acquisisce grinta con la voce che sale di un tono, la batteria pesante e una sezione intermedia con slide e riff hard rock.

Secondo il biografo Stephen Davis, il testo del brano si riferisce alla relazione segreta avuta da Plant con la sorella di sua moglie Maureen. Il retroscena giustifica la successiva Thank You, il cui testo sarebbe dedicato da Robert proprio alla consorte: una rock ballad bellissima, introdotta dal giro di accordi di una chitarra a 12 corde e una ritmica compatta, seguita dal canto (solo inizialmente sommesso) sulla base dell’organo Hammond di Jones, strumento che sarà protagonista del magnifico postludio conclusivo.

Il lato B si apre con una coppia di brani collegati tra loro.

Il più noto è Heartbreaker, pezzo (pubblicato su singolo in Italia, con buon successo) dotato di un altro killer riff di Page poi doppiato dal basso, pieno di stacchi, alternanze vocali e un assolo intermedio di chitarra che farà scuola. L’altro è Living Loving Maid (She’s Just A Woman), di nuovo contraddistinto da un riff indovinato e molto orecchiabile in alternanza al canto, con tanto di botta e risposta vocali (ai cori Jones e Page, che però bollerà questa canzone come quella che meno gli piace in assoluto).

Ramble On anticipa certe cose eteree che prenderanno il volo nel terzo album: chitarra acustica, percussioni, un giro di basso e la voce delicata e quasi femminea all’inizio che canta in chiave fantasy. Ma poi Plant sale di intensità, entra un riff distorto appoggiato da rifiniture di chitarra, mentre Jones disegna una linea di basso superlativa.

La strumentale Moby Dick è naturalmente l’apoteosi di Bonham: dopo il fill iniziale di tamburi, chitarra e basso insieme suonano la linea melodica, con Bonzo che si aiuta anche al campanaccio. E mentre le ultime note distorte della balena stanno ancora sfumando, ecco subentrare Bring It On Home, questa sì una vera e propria cover di un brano di Dixon: riff di chitarra blues, armonica, canto prima a volume basso, poi urlato quando entrano anche il ritmo e la chitarra distorta di Page.

Prodotto da Page, LED ZEPPELIN II si presenta con una copertina che l’art director David Juniper basa su un contingente dell’aeronautica tedesca fotografato durante la Prima guerra mondiale, dipingendo i volti dei musicisti e di alcuni loro amici al posto di quelli dei soldati. Il colore dominante è il marrone e la sagoma del dirigibile la si distingue solo aprendo il gatefold.

L’album viene prenotato da 400.000 fan prima ancora di apparire nei negozi, il 22 ottobre 1969. Schizza in testa alla classifica americana scalzando nientemeno che ABBEY ROAD dei Beatles, e vende nel giro dei primi sei mesi 3 milioni di copie. Quasi altrettanto imponente il successo in patria: resterà in classifica oltre due anni, stazionando anche in cima. Numero 1 anche in Australia, Canada, Danimarca, Spagna e Germania, il disco arriva al secondo posto nelle hit parade italiane. La pubblicità dell’album che, sfruttando il tema dell’aviazione della copertina, recitava “Led Zeppelin II, adesso vola”, era stata facile profeta.

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