
MUSICA PERICOLOSA
La TORMENTATA storia del compositore SHOSTAKOVICH nella Russia di Stalin. Dove anche una SINFONIA poteva costare molto
Parte VIII
Questa è una storia esemplare. La storia di una sfida mortale tra potere e libertà d’espressione. Fra un tiranno e un artista dalla schiena diritta. Un duello a singhiozzo durato, tra tregue e colpi bassi, quasi vent’anni. Il perseguitato è uno dei tre maggiori compositori russi del secondo Novecento, Dmitri Shostakovich (gli altri sono Sergej Prokofiev e Igor Stravinskij, da lui accusati di essersi “venduti” all’Occidente). L’aguzzino è Stalin. Col suo codazzo di tirapiedi: Khrennikov, Kerzencev, Shepilov e l’inflessibile teorico del realismo socialista, Andrej Zhdanov.
Successo rovinoso
«Nessuno», sostiene il musicologo Solomon Volkov, «ha sofferto a causa della propria musica come Shostakovich». Dalla composizione della Quinta sinfonia in avanti, cioè dalla fine del 1937, la paura dell’arresto e della pena capitale, associata all’idea del calvario, diventò un chiodo fisso. I trionfi, le ovazioni del pubblico, i riconoscimenti internazionali, i premi e i regali che il dittatore alternò alle bastonate e alle minacce, non riuscirono a far pendere la sua bilancia dalla parte della soddisfazione. Non per nulla le sue memorie (Testimonianza, a cura dello stesso Volkov) si aprono con la più desolante delle immagini: “Se volgo lo sguardo all’indietro, non vedo che rovine, non vedo che montagne di cadaveri”.
Enfant prodige
La sua carriera era partita a razzo. Nel ’29, a 23 anni, era considerato un novello Mozart: aveva già composto e visto eseguite con successo due sinfonie, collaborato con il grande regista Mejerchol’d in teatro, firmato la colonna sonora del film La nuova Babilonia, composto un’opera ispirata al racconto grottesco Il naso di Nikolaj Gogol (1835). Con quest’ultima aveva scoperto la sua vena avanguardistica e più di un critico aveva storto la bocca dandogli del “teppista” musicale. Dopo sedici repliche nella sua Leningrado era intervenuto Kirov, capo del Partito comunista locale, bloccando l’opera. Fin lì, poco più che birichinate.
L’incubo vero cominciò con l’opera seguente, Lady Macbeth nel distretto di Mcensk, tratta anch’essa da un racconto ottocentesco. La trama gronda sangue e sesso: omicidi familiari, passioni, erotismo smaccato. Temi proibiti dalla società sovietica d’allora. Al centro un’eroina tragica, Ekaterina Lvova, in cui Shostakovich raffigurava la futura consorte, Nina Varzar, prototipo della donna libera e disinibita. Oltre ai contenuti scabrosi, risultava conturbante la scrittura orchestrale impetuosa e sperimentale: una miscela di espressionismo tedesco e lirismo italiano.
Il debutto avvenne nel gennaio ’34. Trionfo a Leningrado e poi a Mosca. Anche Gorkij, l’intellettuale più ascoltato da Stalin, apprezzò. Mentre l’opera era ancora in scena, al Bolshoi debuttò una seconda creazione di Shostakovich, il balletto comico Il limpido ruscello, dalla musica melodica e scoppiettante.
Stroncato
Il 26 gennaio del 1936 Stalin, che non si perdeva né un’opera né un balletto, assistette a una replica di Lady Macbeth. Qualcuno notò che la sezione di ottoni, posta sotto il palco governativo e aumentata per l’occasione, suonava a un volume eccessivo. Ma non fu solo questo a indispettire Stalin: troppe scene di sesso (lui si sforzava di moralizzare i costumi nazionali) e troppe dissonanze. Due giorni dopo uscì sulla Pravda, l’organo di stampa ufficiale, una stroncatura anonima in cui era facile riconoscere la mano del dittatore. Le parole più frequenti nell’articolo, intitolato Caos anziché musica, erano, appunto, “caos” e “rozzo”. Si accusava il compositore di “formalismo”, ossia di fare un’arte astrusa, incomprensibile alle masse. La musica per il popolo sovietico doveva essere semplice, melodica, edificante. E si aggiungeva un avvertimento: “Questo gioco con cose cervellotiche potrebbe finire molto male”.
Pochi giorni dopo un editoriale intitolato Falso ballettistico fece a pezzi il balletto: “Musica priva di carattere, che non esprime nulla”. Infine, il 10 febbraio, un terzo editoriale completò la demolizione stigmatizzando il carattere “formalistico-truffaldino” dell’opera e quello “mellifluo-bamboleggiante” del balletto.
Nemico del popolo
Per il regime le arti erano un’arma di consenso e di controllo fondamentale. Stalin passava le giornate ad ascoltare la radio e a leggere (500 pagine al giorno, secondo i biografi), sere e notti a visionare opere teatrali e film. E se non lo faceva lui, c’era chi passava al setaccio ogni produzione del Paese. Chi deviava dalla linea estetica diventava un nemico del popolo e rischiava la vita.
L’attacco fece il vuoto intorno al novello Mozart. “Ne uscii completamente distrutto: con un colpo che spazzava via il mio passato e liquidava il mio futuro”, confesserà Shostakovich. In quel periodo pensava spesso al suicidio ed era “completamente in balia della paura”. Decise di non scrivere più opere né balletti e di tenere nel cassetto le sinfonie più dissacranti, come la Quarta o come Palco antiformalista, uno sberleffo a Stalin e agli altri censori che venne eseguito per la prima volta soltanto dopo la sua morte.
In sua difesa intervennero Gorkij, il maresciallo Tuchacevskij (fucilato un anno dopo per cospirazione) e i più noti intellettuali progressisti d’Occidente. La mobilitazione internazionale indusse Stalin a offrire una via d’uscita al reprobo: il cinema. Dopotutto un suo motivetto da film del ’32, Il mattino ci accoglie con refrigerio, l’aveva deliziato. Nonostante ciò, la famiglia del compositore venne decimata dalle purghe staliniane e lo strazio del musicista si riversò nella Quinta sinfonia, denuncia criptata di tutti i totalitarismi. Il messaggio critico nascosto nella partitura (grazie a temi musicali ironici) non fu colto dai censori e la sinfonia fu accolta con entusiasmo in patria e all’estero. Da quel momento Shostakovich rientrò nelle grazie del tiranno e collezionò premi Stalin (100mila rubli), più una dacia.
Tregua
Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale assurse addirittura al rango di eroe. La sua Settima sinfonia, la più politica delle sue opere, fu eseguita nella Leningrado assediata il 9 agosto del ’42, e il concerto diffuso dalle radio di tutto il mondo. Lui posò con la divisa di pompiere volontario e la foto finì sulla copertina di Time. Lo spartito raggiunse l’America e fu eseguito con la direzione di Toscanini. Ma la tregua durò poco. Già la Nona sinfonia, che doveva essere una celebrazione della vittoria, aveva irritato il despota perché troppo breve, asciutta e scherzosa (uno dei temi era associato allo stesso Stalin) e non abbastanza celebrativa. Dopo la guerra Stalin voleva estirpare le perniciose influenze occidentali dal mondo comunista. Perché non ci sono opere liriche sovietiche?, si chiedeva. Se la prese con l’opera di tale Muradeli, La grande amicizia, che, guarda caso, era influenzata dallo stile di Lady Macbeth.
La lista
Nel gennaio del ’48, il “grande inquisitore” del regime, Zhdanov, responsabile dell’ortodossia culturale, riunì a convegno i più importanti musicisti russi e qui ribadì i principi del realismo socialista: l’arte doveva rappresentare lo “sviluppo rivoluzionario” della realtà e stilò una lista di proscrizione dei controrivoluzionari, i formalisti. Shostakovich era in cima all’elenco. L’11 febbraio il compositore fu onvocato di prima mattina al Cremino, dove gli fu comunicata la decisione di Zhdanov: licenziato in tronco dai conservatori di Mosca e Leningrado, le sue opere cancellate dal repertorio. Di nuovo il suo sistema nervoso fu sul punto di cedere: i Quartetti, non destinati alle grandi sale da concerto, sono una sorta di drammatico “diario in musica” di queste sue fasi depressive.
Il tiranno lo graziò di nuovo. Il 16 marzo del ’49 squillò il telefono di Shostakovich: era Stalin, che voleva spedirlo alla Conferenza di pace di New York come fiore all’occhiello della delegazione sovietica. Quando il musicista rifiutò perché le sue opere erano al bando, il dittatore fece mostra di stupirsi. “Mi toccherà correggere i compagni”, lo blandì,
e ordinò di riabilitarlo. Shostakovich fu costretto a imbarcarsi per la Grande Mela. Dove un esule di fama, Nikolaj Nabokov, lo accusò di essere un servo di Stalin e il direttore d’orchestra Toscanini non volle incontrarlo. Fu l’ultimo scambio fra gatto e topo. Il tiranno morì 4 anni dopo e il musicista (che vivrà fino al 1975) vuotò a suo modo il sacco nella Decima sinfonia. «Il selvaggio Scherzo», osserva Volkov, «è il ritratto musicale di Stalin». Il ritratto di uno “che sferrava i colpi da dietro un angolo, come un bandito di strada”. Come fanno “i più meschini”. Parole di Shostakovich.
Caro Stalin, firmato Bulgakov
Tra le storie di artisti falciati dal terrore staliniano, quella dello scrittore e drammaturgo Michail Bulgakov (1891-1940), autore del romanzo-capolavoro Il Maestro e Margherita, è unica. Fu vittima, sì, umiliata e imbavagliata, ma anche sedotta, in qualche misura soggiogata, dal carnefice. Una “sindrome di Stoccolma” (la patologica solidarietà diagnosticata ad alcuni rapiti nei confronti dei loro rapitori) epistolare. Medico al seguito dell’Armata Bianca (cioè zarista) nella guerra civile, Bulgakov era scettico sulla rivoluzione e rivendicava il diritto alla massima libertà espressiva. Stalin aveva apprezzato le sue opere giovanili, ma la censura lo bollò come esemplare di una “nuova razza di borghese”. Le sue commedie furono tutte bloccate.
La lettera
Ridotto alla fame, si risolse, con gesto temerario, a scrivere a cuore aperto al leader. Chiese il permesso di espatriare o, in alternativa, un posto nel Teatro d’arte moscovita. Un mese dopo, il 18 aprile 1930, Stalin gli telefonò a casa. Gli promise l’assunzione in teatro e un colloquio a tu per tu. Il giorno dopo, Bulgakov fu assunto come aiuto regista, ma l’incontro promesso non avvenne mai e divenne per lui un cruccio. Convinto di aver trovato nel tiranno un protettore, Bulgakov scrisse altre tre lettere a Stalin ma non ebbe risposta. Così, per disperazione, si immerse nella stesura del libro che, pubblicato 26 anni dopo la sua morte, lo rese immortale.
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