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NELSON MANDELA, LA PRIMA RIVOLTA FU CONTRO IL CIBO CATTIVO

A 19 anni fu espulso dall’università per aver indotto i compagni a ribellarsi in mensa. Fu quello l’inizio di una vita trascorsa a dare battaglia all’ingiustizia e alla segregazione razziale in Sudafrica. Pagò con ventisette anni di carcere, ma una volta liberato, fu il primo presidente nero del Paese e vinse il Premio Nobel per la pace

Rolihalahla (attaccabrighe, in lingua xhosa) Mandela nacque il 18 luglio 1918 a Mzevo, un minuscolo villaggio di appena 800 abitanti della regione sudafricana del Transkei. Il nome con cui divenne famoso, Nelson, gli venne assegnato molti anni dopo da un’insegnante inglese. Apparteneva alla tribù Thembu del popolo xhosa, nella quale il padre Gadla godeva di un’importante posizione vicino al re, che governava nominalmente la tribù. Il potere reale in Sudafrica era da secoli saldamente in mano agli inglesi, che reggevano il Paese con mano di ferro. Anche il padre di Mandela subì il peso dei dominatori: coinvolto in una banale lite a proposito di un bue, venne convocato dal magistrato inglese che trattava il caso. Il padre di Mandela si rifiutò di obbedire e venne destituito. Per avere l’appoggio dei parenti la madre di Mandela dovette trasferirsi in un villaggio vicino, Qunu, e qui Nelson visse la sua infanzia, uguale a quella degli altri bambini neri. Come ricorda la sua autobiografia, sorvegliava le pecore e il bestiame nei campi, nuotava nei ruscelli, beveva il latte dalle mammelle delle mucche, modellava piccoli animali d’argilla. Alla morte del padre, quando Nelson aveva solo nove anni, il reggente della tribù si offrì di accogliere nella propria casa il piccolo orfano. Fu un grosso colpo di fortuna, che mise il giovane Mandela nella condizione di avere un’educazione occidentale, ma anche di sperimentare cosa fosse la democrazia diretta: tutti i membri della tribù, infatti, avevano il diritto di presentarsi a corte e tutti i loro casi venivano trattati in modo equanime. Nelson doveva diventare consigliere del sovrano e poiché sua madre era una cristiana metodista, venne inviato in una scuola britannica della regione. Per la prima volta nella sua vita Nelson, ragazzo cresciuto nel veld (l’aperta campagna del Sudafrica), entrava in un edificio occidentale, indossando il suo primo paio di scarpe («avevo l’andatura di un cavallo appena ferrato», ricorderà poi Mandela). Nel 1937, a 19 anni, passò al collegio e poi proseguì i suoi studi all’università per africani di Harse, ma ne fu espulso per aver capeggiato una rivolta degli studenti nata per un problema in mensa. Una rivolta ben più importante arrivò nel 1941, quando il suo mentore cercò di imporgli, secondo la tradizione, una moglie: Mandela scappò a Johannesburg.

Primi passi in politica

Qui lavorò per un breve periodo come sorvegliante nelle miniere d’oro, poi passò a una lunga serie di altri lavori. «Non so precisare il momento in cui decisi di darmi alla politica», raccontò poi. «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa: è stato il lento accumularsi di una miriade di offese, di indegnità, di momenti dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo». Nel 1944 fu tra i fondatori della Lega giovanile dell’African National Congress (ANC), il partito che lottava contro la politica segregazionista del governo. Si sposò e proseguì gli studi all’università di Witwaterstrand, diventando avvocato. Dopo un periodo di apprendistato, nell’agosto 1952 aprì assieme all’amico e collega Oliver Tambo il primo ufficio legale gestito da africani in Sudafrica. Fu un successo: «Per raggiungere i nostri uffici ogni mattina dovevamo farci largo tra una folla di gente che aspettava nell’atrio, sulle scale e nella nostra piccola sala d’aspetto». La professione lo mise in contatto quotidiano con le ingiustizie sofferte dai neri rafforzando la sua decisione di lottare. Partecipò nel 1955 alle proteste contro lo sgombero di alcune township (favelas) abitate dai neri e poi a quelle per ottenere la parità di educazione. Lo stesso anno venne votata dal Congresso dell’ANC la Carta della libertà, il documento che raccoglieva le richieste politiche dei neri. Il Governo reagì indurendo la repressione e Mandela venne arrestato il 5 dicembre 1956 con l’accusa di alto tradimento. Anche la vita privata gli inflisse un duro colpo perché la moglie decise di lasciarlo con i figli. Si riprese presto perché il suo cuore fu conquistato da un’altra donna, Winnie Madikizela, che aveva incontrato mentre aspettava il processo. Fu un colpo di fulmine: i due si sposarono poco dopo, nonostante le perplessità del padre di lei. Il processo si concluse il 29 marzo 1961 con una sentenza di assoluzione. Mandela, però, sapeva che si trattava solo di una tregua, dato che il governo seguiva una politica sempre più rigida dopo il massacro di Sharpville, e perciò passò alla clandestinità. Soprannominato dai giornali “Primula nera”, viaggiava di nascosto in tutto il Paese per organizzare proteste contro l’apartheid. Dovette abbandonare il principio della non violenza e optare per forme di lotta armata, soprattutto sabotaggi. Nacque così Umkhonto we Sizwe (Lancia della nazione), il braccio armato del movimento. Per evitare di essere arrestato, Mandela si rassegnò a espatriare in un primo tempo, ma quando rientrò in Sudafrica venne immediatamente catturato: era il 5 agosto 1962. In molti sospettarono che fosse stato tradito da un membro della sua organizzazione, ma lui stesso ammise: «Ero stato imprudente circa la segretezza dei miei movimenti». Al processo si difese da solo, indossando il tradizionale kaross di pelli di leopardo in segno di sfida alla giuria composta di bianchi. Rivolto al pubblico, all’inizio di ogni seduta, lanciava il grido di battaglia dell’ANC: Amandla!, Potere!, a cui il pubblico rispondeva con un tonante Ngawethu!, È nostro! Il verdetto comunque era già scritto e Mandela non perse tempo a difendersi, usando intelligentemente la perorazione finale per presentare al mondo il suo programma politico: «La storia ci insegna che le pene comminate non costituiscono un deterrente per gli uomini, quando la loro coscienza è ridestata. Per gli esseri umani la libertà nella propria terra è l’aspirazione più alta». La condanna fu pesantissima: ergastolo, da scontare nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Robben Island, 13 chilometri a sud di Città del Capo.

Riceveva posta ogni sei mesi

I carcerati venivano svegliati alle 5.30 ma potevano uscire dalle celle solo alle 7.30 per vuotare i secchi dove avevano deposto i bisogni corporali. La colazione era una tazza d’infuso di mais tostato per farlo assomigliare al caffè. A pranzo veniva fornito solo granturco bollito. Prima e dopo pranzo i prigionieri dovevano stare in cortile a spaccare pietre, oppure andavano a piedi in una piccola cava di calce. Prima di cena c’era la doccia, naturalmente solo con acqua fredda. Mandela subiva restrizioni speciali: poteva ricevere una sola lettera dall’esterno ogni sei mesi e spesso le autorità carcerarie gliela bloccavano. Tuttavia, grazie alla sua conoscenza della legge, talvolta riusciva a impedire le sopraffazioni più arbitrarie. La punizione più frequente consisteva nell’essere messi in isolamento per i motivi più futili. Presto però i prigionieri politici si organizzarono. Fecero arrivare libri per studiare e laurearsi. Per comunicare tra loro, raccoglievano le scatole di fiammiferi buttate via dalle guardie e vi inserivano una sorta di doppio fondo dove nascondere brevi messaggi scritti col latte. Per leggerli bisognava spargerci sopra il disinfettante fornito per pulire le celle. Le visite dei familiari erano rarissime: Mandela poté vedere sua moglie solo due volte nei primi quattro anni di detenzione. Per piegare la sua resistenza, il governò tentò anche di espellerlo dall’ordine degli avvocati. Ma temendo di concedergli un’eccessiva visibilità, lo stesso governo fece marcia indietro davanti all’intensa reazione di Mandela che aveva chiesto di essere processato pubblicamente. Gli anni passavano lentamente ma non invano: nel mondo libero, infatti, montava la protesta per il trattamento che il governo sudafricano infliggeva ai prigionieri che lottavano per i loro diritti. Il Sudafrica fu sottoposto a sanzioni da parte degli altri Paesi. Anche lo sport venne coinvolto: con l’accordo di Gleneales del 15 giugno 1977 gli stati del Commonwealth britannico esclusero il Sudafrica dalle competizioni a causa delle leggi razziali. Le ultime nazioni ad allinearsi a questa linea furono Inghilterra e Stati Uniti. La sospirata svolta avvenne tra il 1989 e il 1990, quando il presidente sudafricano Frederik Willem De Klerk, proseguendo l’opera del predecessore Pieter Willem Botha, cancellò finalmente le leggi razziali e liberò tutti i prigionieri politici.

La vita ricomincia a 71 anni

Nelson Mandela venne liberato l’11 febbraio 1990, dopo 27 anni di detenzione, quasi 10mila giorni di carcere. «Quando arrivai a una cinquantina di metri dal cancello della prigione fui consapevole di una grande folla di persone: centinaia di fotografi, cameramen e giornalisti si aggiungevano alle migliaia di compagni… Quando un operatore televisivo mi mise in mano un oggetto lungo e scuro che non riuscii a identificare mi ritrassi pensando che fosse una nuova arma inventata mentre ero in carcere. Winnie mi spiegò che si trattava di un microfono… Quando finalmente varcai quel cancello per salire a bordo di un’auto, ebbi la sensazione che, nonostante i miei 71 anni, la mia vita stesse per ricominciare». Era una sensazione giusta. “Madiba” (titolo onorifico tribale per i capi anziani) fu eletto presidente dell’ANC e guidò le trattative col governo per lo smantellamento dell’apartheid, una nuova costituzione e le nuove elezioni. Nel 1993 ricevette assieme a De Klerk il premio Nobel per la pace. Le elezioni si tennero nel 1994, l’ANC vinse con oltre il 66 per cento dei voti e Nelson Mandela venne nominato presidente, carica che ricoprì fino al 1999. Furono anni dedicati alla ricostruzione dell’unità del Paese. Morì a Johannesburg il 5 dicembre 2013.

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