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OGGI IL TABÙ PIÙ GRANDE È LA MORTE

In Occidente, dove la vita finisce il più delle volte negli ospedali, tendiamo a parlarne il meno possibile. E a chiamare “il caro estinto” in tutti i modi tranne morto

Seconda Parte

La morte è il momento più ricco di ritualità in ogni cultura e non è considerato universalmente un tabù. L’antropologo Massimo Canevacci, docente visitante presso l’Istituto di studi avanzati dell’Università di San Paolo (Brasile), ha condotto ricerche sui Bororo, popolo che vive nel villaggio di Meruri nel Mato Grosso. «Il funerale coinvolge non solo l’intero villaggio, ma anche tutti i villaggi prossimi, che inviano rappresentanti », spiega. «Nel rito, da un punto di vista simbolico, tutti i morti di tutti i tempi sono presenti. Al termine, il teschio del defunto è lavato, ripulito di ogni traccia organica e simbolicamente trasformato in arara, pappagallo totemico ed essere ancestrale attraverso cui si compie la metamorfosi del morto». Così la morte si ricongiunge con la vita simboleggiando un’eterna trasformazione. In Occidente è diverso. La morte non è un evento collettivo e tantomeno spirituale, e oggi è diventata un evento medicalizzato e sottratto allo sguardo pubblico. In passato, si moriva in casa, circondati da familiari e parenti, bambini inclusi. Oggi si muore spesso in ospedale o in una struttura sanitaria privata (clinica, casa di riposo, hospice) il cui personale si occupa di tutti gli adempimenti burocratici e in un certo senso “sottrae” la salma allo sguardo di parenti e amici, “nascondendo” la crudezza della morte stessa. Secondo numerose ricerche, il mutamento nella nostra relazione con la morte si è gradualmente imposto dal secondo dopoguerra. Sottolinea il sociologo bolognese Stefano Martelli: «La morte è il nuovo tabù della società post-moderna e il grande “rimosso” dell’immaginario collettivo». Non a caso esiste un’interdizione a parlarne e prova ne è l’alto numero di eufemismi con cui sostituiamo l’espressione “X è morto”: diciamo X non è più tra noi, si è spento, è scomparso, è mancato, non ce l’ha fatta, è salito in cielo, riposa in pace. «Assistiamo a un gigantesco processo di rimozione e di occultamento, specie in contesti metropolitani sempre più tecnologizzati e necrofobi », commenta Laura Faranda. «Il tabù della morte si prolunga così nei luoghi turistici, spazi di rimozione del dolore: ad esempio, in Costa Smeralda, il piano regolatore di fabbricazione non ha previsto la costruzione di un cimitero, che diventa tabù urbanistico rispetto al flusso edonistico di un turismo di élite».


SESSO E MORTE VANNO A BRACCETTO

Nella nostra mente la morte e il sesso vanno spesso a braccetto. Non a caso nella psicoanalisi freudiana i due concetti costituiscono i due poli opposti entro i quali la mente umana si muove: Eros, ovvero l’istinto di piacere, e Thanatos, cioè l’istinto di morte. Se l’uno ci spinge alla vita, l’altro ci porta all’autodistruzione. Ma anche diversi studi hanno dimostrato il legame tra queste due pulsioni primordiali: secondo alcuni, un soggetto al quale vengano mostrate immagini erotiche è particolarmente predisposto a evocare, subito dopo, pensieri di morte. In particolare, nel corso di una ricerca americana pubblicata nel 2012 da Social Psychological and Personality Science, a una
serie di persone furono mostrate alcune parole da completare. Prima dell’esercizio, però, una parte di loro era stata sottoposta alla visione di immagini hard. Risultato: chi aveva assistito alle scene porno mostrava una maggiore tendenza rispetto al gruppo di controllo nell’individuare parole legate al tema della morte. Così, ad esempio, chi era stato sottoposto alla visione di materiale erotico completava
la sequenza “gra_ _” formando la parola grave (tomba), mentre coloro che non avevano visto le stesse immagini scrivevano più frequentemente la parola grape (uva).


Non nominare i defunti invano

La cultura occidentale post-moderna ha trasformato la morte in una sorta di tabù. In altre culture sono stati tabuizzati i nomi propri dei defunti: la proibizione di nominarli ad alta voce è stata diffusa in molte culture, dagli Inuit della Groenlandia agli Aborigeni dell’Australia. Questi ultimi erano addirittura costretti a elaborare nomi sempre diversi per i nuovi nati. Frequente è stato anche il divieto di usare i vestiti, gli attrezzi e le suppellettili appartenute a un morto. In alcune regioni italiane, sino a 50-70 anni fa, si usava bruciare gli abiti e i mobili di un defunto e si poteva rientrare in una stanza in cui era morto qualcuno solo dopo averla ripulita e imbiancata nuovamente.

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