
PATRIA E CHIESA: IL CAUDILLO
Dalla guerra civile uscì VINCITORE, nel 1939, un “uomo forte”: FRANCISCO FRANCO, il Generalissimo che divenne padrone della SPAGNA
Parte XV
Cara al sol è il titolo di una canzone degli Anni ’30, che però non parla di carezze al sole e non è rivolta a una donna amata. Certo, sol in spagnolo vuol dire “sole”. Ma cara significa “faccia”. E sulle note di Faccia al sole non si dipanarono amorazzi estivi, né passioni travolgenti, ma uno dei più cruenti macelli del secolo scorso: la guerra civile che nel 1936-39 insanguinò la Spagna consegnando Madrid al caudillo (leggi “duce”) Francisco Franco, destinato a divenire il più duraturo dittatore europeo del ’900, al potere per quasi 37 anni. Eppure quando il futuro caudillo nacque, in una piovosa sera del dicembre 1892, nessuno avrebbe puntato una peseta su di lui: fisico troppo gracile, famiglia barcollante (il padre Nicolás, funzionario della Marina, collezionava amanti), città natale (El Ferrol, in Galizia) troppo decentrata per offrire possibilità di carriera. Inoltre, quando Francisco era poco più che un neonato, trovò sulla sua strada il fratello maggiore, omonimo e cocco del papà, che aveva sempre la precedenza nelle attenzioni e nell’amministrazione delle risorse di famiglia.
Ultradestra
Cara al sol era destinata a incontrare Franco e a fargli da compagna fedele, ma nacque più di 40 anni dopo di lui, nel dicembre 1935, in un bar madrileno dall’impronunciabile nome basco: Or-hkom-pon. A comporre la canzone fu Dionisio Ridruejo, poeta di discreta fama, autore di sonetti, neoclassicista per stile e cattolico per area politico-culturale. Ma il committente era José Antonio Primo de Rivera, politico d’assalto, fondatore della Falange española, partito di ultradestra che fotocopiava per molti versi il fascismo italiano. O meglio: copiava la corrente populista del fascismo, quella che voleva tagliare l’erba nel prato delle sinistre distribuendo terre e creando enti da Stato sociale (come l’Inps). Cara al sol era su quella linea. Infatti Primo de Rivera voleva un inno che facesse concorrenza all’Internazionale. E Ridruejo eseguì, tanto che certi versi della sua canzone sembrano presi da un inno sovietico. Esempio numero 1: “Faccia al sole e la camicia nuova / che ieri hai ricamato di rosso…”. Esempio numero 2: “Mi unirò ai miei compagni / che sono a guardia delle stelle…”.
Benché nazionalista, antisocialista e reazionario fino al midollo, inizialmente Franco non faceva politica attiva e soprattutto non c’entrava niente con la Falange: badava solo alla carriera (militare) che aveva scelto. Così, entrato all’Accademia di Toledo nel 1907 e diventato ufficiale nel 1912, prese parte a campagne coloniali in Marocco, dove si distinse per durezza e coraggio. Poi fu promosso generale di brigata (1926). All’epoca non aveva ancora 34 anni, quindi era il più giovane generale mai visto in Europa, dopo Napoleone.
L’anno di svolta fu il 1934, quando Diego Hidalgo Durán, ministro della Guerra nel governo Lerroux (centrodestra) che guidava la giovanissima repubblica spagnola, nominò Franco suo consulente e gli affidò un compito delicato: normalizzare le Asturie, dove era in atto una rivolta, innescata da uno sciopero di minatori e diventata un’insurrezione generale. I ribelli avevano disarmato la Guardia civil (la polizia spagnola), dato fuoco a chiese e palazzi del potere, infine proclamato un’effimera repubblica socialista destinata a vivere solo 13 giorni.
Le Asturie erano un problema più politico che militare.Ma, come se applicasse la proprietà commutativa delle somme (“cambiando l’ordine degli addendi il totale non muta”), Franco invertì i due aggettivi e diede la priorità assoluta alla forza militare. “Questa è una guerra di frontiera contro il socialismo, il comunismo e tutto ciò che vuole abbattere la civiltà per sostituirla con la barbarie”, proclamò. Poi agì di conseguenza, da uomo “civile”: bombardò le Asturie dal mare, scatenò sui paesi bande di mercenari marocchini, rastrellò tutti i ribelli. Bilancio finale: 30mila arrestati, circa 3mila morti e una spaccatura verticale della destra spagnola. Infatti, mentre i partiti di governo e i loro giornali applaudivano ai metodi brutali del futuro dittatore, a sorpresa la Falange española di Primo de Rivera si pronunciò pro-minatori. Ma Franco non se ne curò: come premio per la repressione incassò una gran cruz laureada de San Fernando (la massima decorazione militare spagnola) e il comando generale delle truppe in Marocco. Poi tornò a mettere la cara al sol in Africa, come un tempo. Ma nel 1935 niente era più come prima: né Franco né la Spagna.
Glaciale
Anzitutto era cambiato Franco, che prima di partire, di fronte all’ipotesi di un atto di clemenza per un condannato a morte (Diego Vázquez, un sergente che aveva disertato ed era passato coi minatori) commentò gelidamente: “Non comminare ai ribelli punizioni esemplari, non castigare energicamente chi ha incoraggiato la rivoluzione […] significherebbe calpestare i giusti diritti della classe militare”. Il generale non si era mai pronunciato così esplicitamente su temi politici.
Anche la Spagna non era più la stessa di un anno prima: «La via della guerra civile, imboccata dopo gli eventi del 1934, era senza ritorno», spiega l’inglese Paul Preston, docente di Storia internazionale alla London school of economics e massimo biografo vivente di Franco. «L’insurrezione delle Asturie aveva spaventato le classi medioalte, mentre le successive ritorsioni, invocate dalla destra e perpetrate dalla coalizione al governo, avevano convinto la sinistra che non ci si doveva più presentare divisi alle elezioni».
In quel clima surriscaldato, per l’opinione pubblica il generale galiziano non era più solo un enfant prodige dell’arte militare. «Franco, il cui ruolo nella repressione era stato molto pubblicizzato», sintetizza Preston, «era ormai visto dalla destra come un salvatore della patria e dalla sinistra come un nemico». Iniziò allora quel culto della personalità che negli anni a venire avrebbe trasformato l’ex bimbo gracile di El Ferrol in una sorta di messia armato, parificato ora al Cid (l’eroe della Riconquista contro gli Arabi), ora ad Alessandro Magno o a Napoleone. Anzi, qualcuno andò oltre, parlando di “uno di quei doni che la Provvidenza, per un fine davvero nobile, elargisce alla nazione ogni 3-4 secoli”. A definire Franco così fu il suo alter ego Luís Carrero Blanco, futuro primo ministro destinato a morire nel 1973 per mano dell’Eta, l’organizzazione separatista basca.
Scontro
Luís era un reduce delle Asturie, quindi da parte sua un po’ di enfasi è comprensibile; ma a pensarla così era metà Spagna: la metà più conservatrice e più cattolica. “Mi sono convinto che Franco è un santo”, dichiarò Salvador Dalí, pittore irriverente. Poi venne il 1936, anno maledetto, e il “santo” ebbe modo di rivelare il suo vangelo.
Tutto iniziò a febbraio, quando la Spagna andò alle urne e il Frente popular (socialisti, repubblicani e comunisti) vinse. A maggio si definì il nuovo assetto istituzionale, con il repubblicano Manuel Azaña alla presidenza della repubblica e il socialista Indalecio Prieto a capo del governo. Si misero in cantiere grandi riforme, ma intanto la Spagna era finita in balìa di scontri tra fazioni contrapposte: di qua falangisti, di là anarchici e socialisti ultras. Di fatto la guerra civile era già in atto, ma ufficialmente scoppiò a metà luglio, quando i falangisti uccisero un ufficiale di polizia di sinistra, José Castillo, e i commilitoni della vittima risposero sequestrando e ammazzando José Calvo Sotelo, leader monarchico e astro montante della destra.
La morte di Calvo Sotelo innescò un’onda emotiva enorme. E tra gli effetti ci fu l’alzamiento (“sollevazione”) contro il governo di quattro armate dell’esercito: una era il Tercio, la “legione straniera” spagnola, al comando di Franco. Nelle intenzioni doveva essere un golpe veloce, indolore, “chirurgico”. Invece si trasformò in un conflitto di tre anni, che costò forse un milione di morti e coinvolse sette Paesi stranieri: Germania, Portogallo e Italia inviarono militari in appoggio ai golpisti; Urss, Francia, Polonia e Messico fornirono armi ai repubblicani. Molte furono le vittime illustri, fin dai primi mesi: in agosto a Granada i falangisti uccisero il poeta Federico García Lorca; a novembre i repubblicani fucilarono ad Alicante il fondatore della Falange, José Antonio Primo de Rivera.
Terzo in lista
Di quella guerra feroce è già stato scritto tutto. Uno dei rari dettagli poco noti è che Franco non fu affatto il leader dell’alzamiento: aderì al golpe solo all’ultimo momento, di malavoglia e come “numero 3” dopo due generali più importanti di lui: José Sanjurjo ed Emilio Mola, che lo irridevano chiamandolo “Miss Canarie” perché gli piaceva giocare a golf sulle isole. Poi però Sanjurjo, che era il vero capo della rivolta, morì in un incidente aereo, forse un attentato, al terzo giorno di guerra. Mola idem, ma 11 mesi più tardi. Così Franco si ritrovò Generalissimo per caso. E il 28 marzo 1939, quando i militari golpisti e i miliziani falangisti entrarono a Madrid al ritmo di Cara al sol, diventata canto simbolo di tutte le destre, lui era ormai il leader indiscusso delle forze vincenti. Compresa la Falange, che rimasta orfana di Primo de Rivera aveva sposato il franchismo, portandogli in dote l’inno, la camisa azul (“camicia azzurra”, uniforme di partito) e mezzo milione di militanti, confluiti presto in un Movimiento nacional che unificava tutte le forze pro-Franco.
Patria e chiesa
Iniziava così il fascismo più filocattolico, più anomalo e più radicato d’Europa. Quanto fosse filocattolico lo dimostrò papa Pio XII, che due settimane dopo la fine della guerra inviò ai fedeli spagnoli un messaggio di “paterna felicitazione per il dono della pace e della vittoria con il quale Dio si è degnato di coronare l’eroismo cristiano”. Il testo, solitamente citato col suo titolo spagnolo (Con inmenso gozo), elogiava fra l’altro i “nobilissimi sentimenti cristiani di cui hanno dato sicure prove il capo dello Stato e tanti suoi collaboratori”. Quanto poi il franchismo fosse anomalo rispetto ai regimi omologhi d’Europa, fu chiaro molto presto.
Infatti solo 5 mesi dopo la presa di Madrid la Germania nazista scatenò la Seconda guerra mondiale; ma mentre l’Italia la seguì a ruota, Franco si tenne con cura fuori dal conflitto, a costo di prendersi insulti e accuse di ingratitudine. L’ambasciatore italiano a Madrid, Roberto Cantalupo, che esercitò garbate quanto inutili pressioni sul caudillo perché non facesse il pesce in barile, lo trovò “gelido, femminile e sfuggente”. Altra anomalia: nel 1939, quando in Germania e Italia vigevano già dure leggi razziali, Franco si rifiutò di allinearsi. E poi, durante il conflitto mondiale, forse perché aveva nelle vene una piccola quota di sangue giudaico, accolse profughi ebrei provenienti dal resto d’Europa. Terza anomalia: mentre il fascismo italiano, nato in una monarchia, finì per fondare una repubblica, il franchismo andò in senso inverso. Infatti nel 1947 Franco restaurò formalmente la monarchia, anche se di fatto il potere restò a un reggente (lui).
Quanto, infine, il franchismo fosse radicato nella società, lo si capisce dal fatto che a guerra mondiale finita (nel 1945), mentre i vincitori premevano perché la Spagna diventasse democratica, Franco fece muro e restò in sella senza scossoni anche quando Madrid fu esclusa dal Piano Marshall (gli aiuti Usa all’Europa) e dall’Onu, mentre la Francia chiudeva le frontiere dei Pirenei e gli Stati Uniti ritiravano il loro ambasciatore. Altrove tanto isolamento avrebbe avuto un effetto mina. Invece finì che i Pirenei furono riaperti presto e che l’ambasciatore ritornò nel 1951.
Nuovi amici
Va detto che pro-Franco giocarono due fattori esterni: l’aiuto dell’Argentina di Juan Perón, lontana per geografia, ma vicina per politica, che rifornì Madrid di tutto ciò che altri le negavano. E il blocco di Berlino (1948-49) che spinse gli Stati Uniti ad allearsi con chiunque, purché anticomunista. Così, con l’ok dell’America democratica, la Spagna rimase un Paese dove era vietato quasi tutto: fondare partiti e sindacati, stampare giornali liberi, vedere film bocciati dalla morale cattolica, usare in pubblico lingue regionali come il basco.
La Spagna andò avanti così fino al 1975, impermeabile a tutte le novità che cambiavano il resto del mondo (decolonizzazione, Sessantotto, guerra del Vietnam per citarne alcune), sotto la guida di governi dove l’Opus Dei aveva due seggi fissi e l’Ancp (l’equivalente della nostra Azione Cattolica) altrettanti, perché Franco fu sempre attento a tenersi amica la Chiesa, pilastro del suo potere. Solo due mesi prima di morire le fece uno sgarbo, l’unico della vita: cestinò una lettera di Paolo VI che chiedeva clemenza nei confronti di otto condannati a morte per reati politici. Poi morì anche lui, per complicanze legate al morbo di Parkinson, di cui soffriva da anni.
Manuel Vázquez Montalbán, noto scrittore catalano, descrive così la reazione di Barcellona alla notizia: “La città si riempì di passanti, lo sguardo alto sui muri, la gola serrata in un prudente silenzio. Le guardie di sicurezza, la polizia e gli uomini delle formazioni paramilitari osservavano la manifestazione silenziosa e con il loro sesto senso udivano l’Inno alla gioia salire dall’anima cauta della città vedova, dall’anima saggia della città occupata”.
Intanto in Portogallo…
Un anno prima dello scoppio della Guerra civile spagnola, nel vicino Portogallo, Antonio de Oliveira Salazar (1889-1970), su richiesta dei militari, prese il controllo del Paese (1932). Già ministro delle Finanze, ereditò un Paese disastrato: conflitti sindacali, lotte tra clericali e anticlericali, riforme mai realizzate e frequenti colpi di Stato lo rendevano esposto a continue tensioni sociali. Ma Salazar riportò l’ordine, a modo suo: con il sostegno della Chiesa e dei contadini governò il Paese con metodi fascisti, sopprimendo i sindacati, la libertà di stampa e ogni opposizione politica. Il tutto con il supporto politico del suo partito unico, l’Unione Nazionale e con quello repressivo della polizia politica segreta. Nasceva il cosiddetto fascismo portoghese (regime dell’Estado Novo come lui stesso lo definì) analogo, nella natura e nei princìpi corporativi, al fascismo italiano.
No war
Durante la Guerra civile spagnola (1936-39), Salazar mantenne una posizione neutrale, sostenendo però attivamente le forze nazionaliste, permettendo il passaggio di materiale bellico attraverso il territorio portoghese e promuovendo l’invio di volontari a sostegno di Francisco Franco. Non solo. Nel 1933, a un anno dal suo insediamento, Salazar divenne anche ministro degli Esteri, rimanendolo per tutta la Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso mantenne una posizione di neutralità. Non fu ostile alle potenze dell’Asse, commerciando con i suoi Paesi tramite la Svizzera, ma rese illegali sul territorio ilmovimento fascista e nazista. Si alleò poi con il Regno Unito: un’alleanza non basata su sforzi bellici, ma sul mantenimento della neutralità. Il tutto a beneficio dell’industria portoghese che infatti in quegli anni fece ottimi profitti con gli uni e con gli altri, come non accadeva da decenni. Il dirigismo economico, il protezionismo commerciale e la rigida politica fiscale permisero così alle lobby legate al regime di arricchirsi e al Paese di imporsi sullo scacchiere internazionale; terminata la guerra il Portogallo diventò infatti membro fondatore della Nato, tollerato proprio per le sue posizioni anticomuniste.
La fine
La situazione si complicò durante la Guerra Fredda: la resistenza del Paese alla decolonizzazione provocò un conflitto tra le forze coloniali portoghesi e i movimenti indipendentisti in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau. Il conflitto rubò risorse al Paese e la crescita si interruppe. Nel 1968 Salazar fu poi colpito da un infarto e abbandonò il potere (morirà due anni dopo). Gli successe Marcelo Caetano, che governerà fino alla Rivoluzione dei garofani, conclusasi il 25 aprile 1974 con il ritorno della democrazia.
Continua