
PUNTURE CONTRO PUNTURE
La zanzara che porta la malaria è ancora la più grande sterminatrice del mondo. A che punto siamo con la ricerca e con quali armi sofisticate stiamo provando a batterla
Parte III
A Gulu, nel Nord dell’Uganda, sta ricominciando la stagione delle piogge. Le zanzare tornano a proliferare indisturbate, nelle pozze accanto alle capanne di terra rossa che punteggiano la savana. E presto i reparti del St. Mary’s Hospital Lacor, che per gli abitanti di questa zona fa la differenza fra la vita e la morte, ricominceranno a riempirsi di pazienti. Nell’Africa Sub-sahariana la malaria fa ancora paura. In questo angolo dell’Uganda, martoriato da decenni di guerra civile, l’11% dei bambini ha la malattia: dieci volte di più rispetto alla capitale Kampala. Con la pandemia in corso, poi, affrontare la consueta recrudescenza primaverile della malaria è ancora più arduo: «I pazienti in questi mesi sono aumentati e molti sono bimbi. Hanno bisogno di trasfusioni, ma la maggioranza del sangue arriva dagli studenti e ora, con le scuole chiuse, non ne abbiamo abbastanza», racconta Venice Omona, responsabile del Dipartimento di pediatria al Lacor. «Inoltre, la paura di contrarre il Covid-19 in ospedale e le difficoltà a raggiungerci ritardano l’arrivo dei pazienti, e così oggi vediamo casi ancora più gravi».
Qui attorno del resto le zanzare Anopheles, portatrici del plasmodio (il parassita che provoca la malaria) trovano un brodo di coltura ideale: per muoversi ci sono solo strade sterrate, rese quasi impraticabili da fango e pozze. Fuori dalle casupole di terra e paglia si ammucchiano cumuli di spazzatura e oggetti abbandonati che si riempiono d’acqua. Non c’è manutenzione delle strade, non ci sono fognature. Dal tramonto all’alba i bambini non dovrebbero stare all’aperto scoperti, ma nessuno ci fa attenzione: ogni raccomandazione per evitare che le zanzare la facciano da padrone è destinata a scontrarsi con la realtà di luoghi dove si fa fatica a sopravvivere.
OBIETTIVO AFRICA
Anche per questi motivi in Africa si registra il 90-95% sia dei casi più gravi e sia della mortalità per malaria. Così in questo continente si sono concentrati i piani di contenimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che negli ultimi vent’anni hanno avuto buoni risultati: dal 2000 al 2015, grazie all’impegno politico del Millennium Goal 6, ai fondi del Global Fund for Aids, malaria and tubercolosis, e a partnership pubbliche e private, l’incidenza della malaria è scesa del 37% e la mortalità del 60%. Dal 2015 però la curva si è stabilizzata su circa 230 milioni di casi e 410.000 morti all’anno, con una riduzione inferiore al 2% in 5 anni. È segno di una flessione degli investimenti e della mancanza di volontà politica, che contrastano con gli obiettivi ambiziosi del Global Malaria Action Plan del 2008, che si proponeva di eradicare la malaria entro il 2050.
Per ottenere il risultato, i piani Oms prevedono innanzitutto la distribuzione di zanzariere impregnate di insetticidi: dal 2004 al 2019 ne sono state fornite più di due miliardi. Ma, il problema maggiore è l’accesso a questi strumenti. Quando ci sono rivolte o guerre, come sta accadendo per esempio in Burkina Faso, tutto può saltare.
LE ARMI A DISPOSIZIONE
Non è l’unica difficoltà: «Spesso la gente usa le zanzariere in modo sbagliato o per altri scopi. Perfino per pescare. E capita anche che una famiglia di otto persone riceva soltanto due zanzariere: a chi darle? Noi raccomandiamo di proteggere almeno i bimbi, ma non è semplice», ammette Omona. Anche la distribuzione di farmaci preventivi può funzionare: lo dimostra un’analisi condotta da alcuni ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, secondo cui si potrebbero dimezzare i casi nella popolazione scolastica distribuendo le dosi in classe. Un’impresa che però è tutt’altro che facile, soprattutto ora con le scuole chiuse in molti Paesi per via del Covid-19.
L’altra possibilità per il controllo delle zanzare è la bonifica del territorio con insetticidi. Ma queste soluzioni hanno effetti temporanei: a sei mesi dagli interventi, per lo più con insetticidi spruzzati nelle case, c’era sempre un calo netto negli accessi. Bastava però interromperli per veder tornare più malati di prima. Insomma, se per un po’ la diffusione si riduce, quando il parassita torna in circolazione tutti sono meno protetti e così si hanno picchi di casi gravi anche nei giovani adulti.
Per casi gravi si intendono quelli che hanno conseguenze che non si dovrebbero vedere più, ma che in Uganda sono all’ordine del giorno: come la malaria cerebrale, in cui si ostruiscono i vasi del cervello e che può portare a convulsioni e coma, o le forme gravi di anemia, perché il plasmodio distrugge i globuli rossi e danneggia il midollo osseo.
LA MINACCIA DELLE RESISTENZE
E dire che le terapie ci sono e quando i pazienti arrivano per tempo in ospedale si può fare molto. Tuttavia, come racconta Lillian Beru, infermiera in pediatria al Lacor, «diamo loro i farmaci che dovrebbero continuare a prendere una volta rientrati a casa. Ma non sempre lo fanno». Per fortuna in Africa non ci sono ancora ceppi di malaria resistenti ai principi attivi in uso: quelli approvati dall’Oms sono sette e contengono, in una sola pillola, molecole derivate dell’artemisinina e altri farmaci; funzionano bene nella malaria non complicata che circola in Africa, ma sono meno efficaci nel Sud-est asiatico, dove si stanno provando altre combinazioni. Intanto, grazie anche a Medicines for Malaria Venture (una partnership internazionale creata per lo sviluppo di antimalarici), si stanno studiando nuove molecole, comprese quelle che si somministrano all’uomo perché agiscano sulle zanzare. È il caso di un composto identificato da ricercatori della Wits University di Johannesburg, in Sudafrica: sembra capace di ridurre la trasmissibilità del plasmodio dal paziente alla zanzara e da questa al successivo ospite, con un possibile effetto di blocco della catena dei contagi.
L’obiettivo è soprattutto preservare l’Africa, dove la malattia miete più vittime, evitando che si diffondano ceppi resistenti ai farmaci o zanzare più efficienti nel trasmettere il plasmodio. Per questo, preoccupa una ricerca pubblicata a febbraio dai Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta (Usa), secondo cui nei centri urbani del Corno d’Africa è arrivata la Anopheles stephensi, la principale portatrice di malaria in India. Sta trovando un habitat adatto e si teme che possa far crescere il carico di malaria nelle città del continente, dove finora la malattia riguarda per lo più le aree rurali. In centri urbani sovraffollati e con scarse infrastrutture igieniche come quelli africani, la malaria potrebbe essere una bomba difficilmente contenibile.
LA DIFFICILE RICERCA DI UN VACCINO
Oltre alla prevenzione e ai farmaci per le terapie, per venire a capo della malaria servirebbe un vaccino. E in questa direzione si stanno muovendo molti sforzi della ricerca, tanto che nel 2019 in Ghana, Kenya e Malawi è partito il primo studio pilota su bambini fino ai 17 mesi. Durerà quattro anni, coinvolgendo tre milioni di piccoli, cui si sta somministrando l’unico vaccino che abbia dimostrato un’utilità e sia stato approvato dalle autorità. Negli studi di fase 2, l’efficacia è risultata attorno al 50%, ma nella fase 3 i valori sono scesi al 27-39%, a seconda dell’età del bimbo e con i più piccoli meno protetti. Tuttavia, anche con questi valori, il vaccino sarebbe in grado di evitare oltre 1.700 casi di malaria ogni mille bambini immunizzati (ognuno può ammalarsi più volte).
Una ventina di altri vaccini sono allo studio, ma non è facile metterli a punto perché il plasmodio è un parassita complicato, che cambia forma e caratteristiche durante il suo ciclo vitale. C’è poi un’altra difficoltà: La malaria non dà una memoria immunitaria duratura. Anche dove è endemica, la popolazione si infetta lo stesso, anche se magari non si ammala o lo fa in modo meno grave. La risposta del nostro sistema immunitario al plasmodio inoltre non è forte e sarà quindi difficile avere un vaccino capace di conferire una protezione molto elevata.