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QUANDO IL DISORDINE DIVENTA MALATTIA

Accumulare oggetti fino al soffitto della casa al punto di non potere né muoversi né uscire. Si chiama disposofobia, una malattia in crescita

Parte II

Edmund Trebus aveva 83 anni quando morì, dopo una giovinezza trascorsa in parte nella Wehrmacht e in parte nelle truppe alleate con le quali contribuì a spazzare via l’esercito nazista prima di trasferirsi in Inghilterra. Qui visse fino al 2002. Aveva combattuto per la libertà e credeva nei valori che il nazismo calpestava, ma non è per questo che è passato alla storia. Gli inglesi lo ricordano per la sua partecipazione alla trasmissione televisiva A Life of Grime (Una vita di sudiciume) del 1999 nella quale impreca contro il personale del dipartimento di Salute ambientale britannico, colpevole di volergli portare via gli oggetti accumulati nel corso del tempo. Il fatto è che questi oggetti erano rifiuti: tronchi d’albero, frigoriferi vecchi, scarti di metallo, cartelli, riviste, sacchi di vegetali in putrefazione, dischi di Elvis Presley e altro ancora. Il tutto riempiva fino al soffitto quasi tutte le stanze della sua villa, riducendo a pochi metri lo spazio libero. Per i vicini era un eccentrico, in realtà soffriva di disposofobia, un disturbo detto anche sillogomania, sindrome della soffitta piena, accumulazione compulsiva o accaparramento patologico.

ll bisogno di accumulare

«Il disturbo», afferma la psichiatra e psicoterapeuta Ada Orrico, «è caratterizzato dal bisogno intenso di accumulare illimitate quantità di oggetti di vario tipo, senza che ne sia ravvisabile una qualsiasi utilità concreta, e dall’incapacità a disfarsene, fino a colmare ogni centimetro di spazio della propria abitazione e dei luoghi abitualmente frequentati come ufficio e automobile». La conseguenza è che il disposofobo ingombra il proprio appartamento a tal punto da essere incapace di assolvere alle più elementari funzioni della vita quotidiana come cucinare, pulire, lavarsi, dormire e muoversi. A volte, l’immondizia è così invadente da costringere l’occupante a strisciare per raggiungere la porta, a dover uscire dalla finestra o a muoversi solo attraverso cunicoli appositamente creati tra gli oggetti ammassati. Diventa impossibile usare il letto, il tavolo o intere stanze. La cosa ha ricadute devastanti sulla vita sociale (non si possono invitare gli amici in casa), lavorativa (i disposofobi non riescono a volte ad andare a lavorare per l’impossibilità di uscire di casa) e igienica (l’immondizia accumulata favorisce la presenza di topi, cattivo odore e mette in serio pericolo ecologico sia gli occupanti della casa sia i vicini). Esistono forme specifiche di disposofobia: ad esempio, forme di bibliomania patologica, consistenti nell’accumulare quantità incredibili della stessa copia di un libro privo di qualsiasi valore (book hoarding); ospitare nella propria abitazione moltissimi animali al punto da essere sommersi e di non potersi prendere cura di loro.

La disposofobia è più diffusa tra la popolazione anziana e maschile e sembra essere inversamente correlata al reddito disponibile. Anzi, spesso inizia con la preoccupazione di “non buttare via niente” e si evolve poi in maniera patologica. Insorge più probabilmente tra chi soffre di altri disturbi psicologici come depressione, paranoia e alcoldipendenza. Per quanto riguarda le cause, «quelle finora accertate», sostiene Orrico, «includono sia fattori genetici (50 per cento), come riscontrato in studi effettuati su gemelli monozigoti, sia fattori familiari e ambientali. L’esordio avviene spesso in età scolare».

La disposofobia non è una condizione rara. Pare anzi che sia in lenta ma inesorabile crescita soprattutto nelle grandi città. «Gli studi sinora effettuati», conferma Ada Orrico, «attestano percentuali che si aggirano intorno al 4-5 per cento della popolazione mondiale». Il problema è diventato così urgente che «il Dsm V (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), la “bibbia” degli psichiatri di tutto il mondo, prevede, nella nuova edizione del 2013, di considerarlo come disturbo a sé stante». Anche documentari e trasmissioni televisive ne discutono ampiamente, mentre varie città negli Stati Uniti hanno organizzato delle task force per aiutare padroni di casa e parenti di disposofobi a liberare le loro abitazioni dai rifiuti accumulati nel tempo. Un’operazione non semplice considerando che (come ricordano i curatori del sito disposophobia.com) la rimozione richiede addirittura la competenza di un project manager per evitare di danneggiare l’edificio e completare lo sgombero nella maniera più efficace possibile.

Un problema non di poco conto, dunque, che ormai annovera tra le vittime anche personaggi famosi, come l’attrice Lindsay Lohan, che in un’intervista ha rivelato di non riuscire a liberarsi delle centinaia di capi di abbigliamento che ha accumulato negli anni. Scarpe, soprattutto. O come Andy Warhol che, negli ultimi quindici anni della sua vita, collezionò qualcosa come 400mila oggetti, tra cui ritagli di giornale, fatture, biglietti aerei, menù, volantini pubblicitari e francobolli.

Casi italiani

«La diffusione del disturbo», ricorda Orrico, «è leggermente inferiore a quella registrata nel resto del mondo. Tanto che, nella pratica clinica, tale diagnosi è ancora rara. Il paziente affetto da disposofobia infatti si sottopone a una visita psichiatrica non perché riconosca come patologico l’accumulo degli oggetti (il problema viene perlopiù segnalato dai familiari), ma per qualche altro disturbo». Nel marzo di 2013, tuttavia, ha fatto notizia il caso di un’anziana donna di Arezzo che aveva accatastato nel suo piccolo appartamento una quantità incredibile di materiale – abiti, sacchi, scatole, borse, riviste – che raggiungeva i due metri d’altezza. La polizia municipale, intervenuta a seguito di un esposto, ha dichiarato l’appartamento inabitabile e ne ha ordinato l’immediato sgombero. Sembra che a causa del ciarpame accumulato, la signora non riuscisse più a uscire di casa e fosse costretta a usare un fornellino per scaldarsi il cibo.

«Tra i miei pazienti», afferma Ada Orrico, «posso citare il caso di un ragazzo di 33 anni che, fin dai primi anni di scuola, non voleva buttar via i vecchi giocattoli e neppure i quaderni. Tale comportamento si è aggravato sempre più fino a rendere impraticabile dapprima la sua stanza e poi gran parte della sua abitazione. Ricordo anche un uomo di 52 anni che, rimasto solo dopo la morte dell’unico fratello, aveva la casa piena all’inverosimile di scaffali di ferro traballanti contenenti una serie infinita di “documenti” che lui, appassionato di giurisprudenza, conservava e spesso fotocopiava per paura di perderli».

«La disposofobia», conclude Ada Orrico, «è curabile ricorrendo sia alla psicoterapia sia alla terapia farmacologica, anche se i risultati di quest’ultima sono contrastanti». Attenzione, però. L’accumulo sproporzionato di oggetti potrebbe rappresentare un modo per ridurre il vuoto della propria vita: non a caso il disturbo è più diffuso tra chi vive solo. E allora storie come quella di Trebus sarebbero l’emblema di qualcosa che non va nella nostra società. E non semplici bizzarrie che riguardano pochi, sfortunati individui.

Continua

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