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QUANDO LA PITTURA INVENTÒ IL SELFIE

In mente viene subito il capolavoro del Parmigianino. Magli autoritratti degli artisti non somigliano agli scatti con il cellulare. Perché non ritraggono un volto: ritraggono l’anima.

La parte più misteriosa di noi è il volto: possiamo vederci le mani, il petto, le gambe, i piedi, perfino una parte del sedere, muovendo agilmente lo sguardo. I nostri occhi dominano il nostro corpo, ma non il volto. Ogni volta che ci vogliamo guardare in faccia abbiamo bisogno di uno specchio, dove ci vediamo riprodotti, proprio come in un autoritratto.Moriremo senza esserci mai visti, e chiunque può conoscere la nostra faccia meglio di noi; ci può, cioè, guardare direttamente… E se fossimo un altro? Da qui deriva il mito di Narciso e, come inevitabile conseguenza, il rito del selfie.

PUNIZIONI DIVINE

Come si legge in tanti riassunti del racconto di Ovidio, la ninfa dei monti Eco si innamora di un giovane di nome Narciso, figlio di Cefiso (una divinità fluviale) e della ninfa Liriope. Cefiso aveva circondato Liriope con i suoi corsi d’acqua e, così intrappolata, l’aveva sedotta. Sul futuro del bimbo, Liriope consultò l’indovino Tiresia, il quale predisse che Narciso avrebbe raggiunto la vecchiaia “se non avesse mai conosciuto se stesso”. Quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, era un giovane di tale bellezza che ognuno – uomo o donna, giovane o vecchio – si innamorava di lui. Ma Narciso, sdegnosamente, respingeva tutti. Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco furtivamente lo seguì tra i boschi, desiderosa di rivolgergli la parola, ma incapace di parlare per prima, perché costretta a ripetere sempre le ultime parole di ciò che le veniva detto; era stata infatti punita da Giunone, perché una volta l’aveva distratta mentre le altre ninfe, amanti di Giove, si nascondevano. Narciso, quando avvertì la presenza di Eco, gridò: “Chi è là?”, e lei rispose: “Chi è là?”, e così continuò, finché non si mostrò e corse ad abbracciare il bel giovane.

Narciso, però, la allontanò chiedendole di lasciarlo solo. Ed Eco, con il cuore infranto, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo nel suo amore non corrisposto, finché di lei rimase solo la voce.

La dea Nemesi, ascoltando questi lamenti, decise di punire il crudele Narciso. Il giovane, nel bosco, si chinò su una pozza profonda per bere. Non appena vide, per la prima volta, la sua immagine riflessa, come ogni altro si innamorò perdutamente del bel ragazzo che comparve di fronte a lui, senza rendersi subito conto che era lui stesso. Quando se ne accorse, comprendendo che non avrebbe mai potuto essere riamato, si lasciò morire struggendosi inutilmente. Si compiva così la profezia di Tiresia.

IL PRIMO DELLA STORIA

Davanti allo specchio ognuno si vede e si riconosce anche se non si piace. Ma, diversamente da Narciso, si compiace di essere sé stesso, di ritrovare la propria identità. Dunque noi viviamo di autoritratti: l’unica condizione possibile per vederci, per sapere chi siamo. Possiamo toccarci le labbra ma non vederle. Della testa ci restano, alla vista, se lunghi, i capelli. Tra le opere più parlanti della pittura, quelle più intime e segrete, quelle più rivelatrici, sono gli autoritratti. Ovviamente, se fedeli, non ci sarebbero senza lo specchio, la realtà riflessa che è data agli artisti per ritrarsi. Non mancano anche le immagini dichiaratamente specchiate: un volto dipinto su un vaso, su un’armatura, su uno scudo. Uno dei pittori più grandi e più sensibili, Parmigianino, si dipinge direttamente in uno specchio, in una superficie circolare e convessa, nella quale entrano anche la stanza, la finestra e un braccio in primo piano con un evidente effetto di distorsione. Il volto è alla giusta distanza per non patire deformazioni. Il pittore è fermo per evitare che il suo volto vibri o tremoli. È, propriamente, il primo selfie, in chiave autoreferenziale, con la sola immagine del giovanissimo artista, indubbiamente narcisista.

CAPOLAVORO CON AMICO

Il selfie contemporaneo è invece spesso eteroreferenziale e, contemporaneamente, masochistico; perché si fa a fianco di un altro, generalmente famoso, per portarcelo a casa come testimonianza di presunta amicizia, di affinità, di simpatia. Ed è pensato perché l’altro, con la sua notorietà, dia luce a noi. Il selfie non è mai con uno sconosciuto, ma con un “riconosciuto”, e per questo chiamato come testimone di chi glielo chiede e di cui non sa nulla. Prima del selfie, con le fotografie di circostanza, un uomo pubblico poteva benissimo essere fotografato a fianco di un mafioso inconsapevolmente. Intanto, per chi è richiesto, è difficile dire no, perché la richiesta stessa è una ammissione di inferiorità da parte di chi la formula, e contiene una preghiera: che tu accondiscenda a farti fotografare con un pirla consapevole del suo limite e della sua inferiorità. E, contemporaneamente, quella richiesta è un ossequio, un riconoscimento non solo della tua fama ma, talvolta, del tuo merito riconosciuto; ed è opportuno e giusto concederlo.

L’autoritratto – penso a quelli di Antonio Ligabue, di Fausto Pirandello, di Lucien Freud, seriali e tra i più vicini a noi – denuncia spesso un disagio, quando non un’alterità. Spesso l’autoritrattato è un altro. Gli autoritratti parlano, ci dicono anche quello che l’autorenoncihavoluto dire: così, nei selfie, l’espressione spesso ebete del richiedente e del richiesto, sorpreso o impreparato.

Un dipinto straordinario è certamente il doppio ritratto di Raffaello conservato al Louvre, propriamente un autoritratto con un amico. L’apparenza è simile, ma il processo è l’opposto a quello del selfie: chi guarda in camera, chi scatta, è il più noto, la star, lo stesso Raffaello. L’altro si gira, sembra distratto, colto all’improvviso, non in posa. Ma vogliono essere insieme, proprio come in un selfie, per comunicarci qualcosa di loro, di un loro legame affettivo, di amicizia. Un’intesa non dichiarata, ma inequivocabile. Raffaello ci guarda e ci parla di sé, della sua passione, del suo stato d’animo, della sua vita intensa. Un capolavoro di intimità e di introspezione. Espressione di un’anima grande.

Dopo essermi occupato per anni di autoritratti, e aver cercato di sondare l’animo dei più intensivi a produrne, come Tiziano, Rembrandt e Van Gogh, in questi tempi sono tornato a riflettere sui selfie, senz’anima, con una certa frequenza. Ecco alcuni pensieri:

  • Il selfie è una piaga sociale.
  • Il selfie è una maledizione di Dio: sembra fatto apposta per farti pagare la notorietà.
  • La sola eclisse che vedo è quella dei vostri cervelli impegnati a fare selfie a facce inguardabili.
  • Il selfie è l’istantanea di un pirla che immortala la sua vanità.
  • Il selfie è la foto di uno stupido che si commemora con te pensando di esistere.
  • Questa cosa dell’asta dei selfie vi sta sfuggendo di mano: io vi impiccherei all’asta.
  • Il selfie è un’invenzione da barbari.
  • Il selfie è la malattia del nostro tempo.
  • Ma non riusciremo a guarirne: tutta la nostra vita è un autoritratto.
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