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RESPONSABILITÀ COME POTERE PERSONALE

L’educazione classica che abbiamo ricevuto, l’istituzione scolastica, la religione, i modelli economici dominanti, non possono che apparire a una consapevolezza anche solo leggermente più avanzata come sovrastrutture depotenzianti per l’uomo, gabbie per l’allevamento intensivo di individui deboli e spauriti, esautorati della propria capacità volitiva di autodeterminarsi.

Ogni griglia di riferimento di questa gigantesca industria di automi dipendenti e fiacchi, quindi tendenzialmente inoffensivi, pare indirizzare l’umanità verso lo stato di coscienza del “bambino”, ossia di un soggetto bisognoso di altri che provvedano per lui, incapace di scegliere, decidere, assumersi la responsabilità per la propria vita.

Pochi si trovano nello stadio dell’”adulto”, vale a dire di colui che sa e può gestire la vita autonomamente, provvedendo a se stesso; ancor più sparuto è il novero di coloro che hanno raggiunto la coscienza del “genitore”, che provvede per sé e per la famiglia, in senso lato gli altri, la comunità, la famiglia umana tutta. Creare un setting di vita potenziante per se stessi e anche per la collettività è appannaggio di chi sa, per prima cosa, essere leader di se stesso. Solo i leader possono dedicarsi a questo fine: migliorare l’esistenza degli altri dando un contributo e un beneficio alla qualità di vita del prossimo, oltre che farsi carico responsabilmente degli esiti della propria. I gregari, i mediocri, sono rivolti unicamente al vantaggio personale e del loro piccolo orticello.

IMPOTENZA APPRESA

Chiaramente più si permane nello stato di coscienza infantile, più ci sentiremo in balia delle decisioni altrui, delle circostanze esterne e propensi a delegare il nostro potere personale a istituzioni e figure di autorità esterne. Se, per molti versi, questo ci priva di forza interiore e potere decisionale, per altri ci solleva da gran parte della responsabilità circa la nostra vita e dalle conseguenze delle nostre scelte, condannandoci a una situazione di lamentosa ma comoda passività. Tutto il nostro impianto culturale, se da un lato esalta a dismisura la competitività e l’emulazione dei modelli “vincenti” a discapito della cooperazione e della partecipazione al bene comunitario, dall’altra ci rende volutamente fragili e bisognosi (da una condizione psicologica di peccatori che necessitano di espiazione e non possono cavarsela senza l’aiuto divino, allo stato assistenzialista, alla creazione di automi dipendenti da utilizzare in contesti di lavoro alienante, dove la componente creativa e il contributo personale sono spesso scoraggiati,). Ci vogliono impotenti, ci plasmano affinché la nostra volizione sia facilmente piegata alla volontà superiore e agli scopi di pochi.

Il sentimento di impotenza è la percezione di non avere alcuna possibilità di fare qualcosa per migliorare la propria condizione ed è correlato al modo in cui l’essere umano affronta quotidianamente le sfide e i fallimenti.

Lo psicologo statunitense Martin Seligman definì “Impotenza Appresa” una sensazione di sfiducia persistente e totalizzante che porta a desistere dall’affrontare un problema o una situazione in virtù del fatto che in passato sono state affrontate situazioni simili con esito negativo. Indica una condizione in cui le persone possono apprendere di non aver controllo su ciò che accade loro in alcune situazioni.

Secondo Seligman, questo meccanismo induce le persone ad accettare una situazione negativa senza cercare di migliorarla, a causa della convinzione che ogni tentativo sia comunque inefficace. In genere questo comportamento viene manifestato dopo che un soggetto ha subito ripetuti stimoli avversi al di fuori del proprio controllo, ossia causati da fattori ambientali esterni su cui non ha la possibilità di intervenire.

Con i termini “impotenza appresa” o “impotenza acquisita” ci si riferisce quindi, nell’ambito delle Neuroscienze e della Psicologia, al comportamento esibito da un soggetto dopo aver sopportato ripetuti stimoli dannosi al di fuori del suo controllo. A partire dagli anni ’60 del secolo scorso Seligman realizzò numerosi esperimenti di laboratorio, effettuati dapprima su roditori, poi su cani e infine su esseri umani.

Questi studi misero in luce come un animale, se sottoposto ripetutamente a uno stimolo negativo o doloroso (all’epoca si eseguivano ancora esperimenti di questo tipo: gli animali usati come cavie non erano tutelati!) come una scossa elettrica che non poteva evitare in alcun modo, anche quando le condizioni venivano modificate e aveva la possibilità di fuggire o fare azioni positive per salvarsi, si arrendeva senza più reagire: aveva imparato che, qualsiasi cosa avesse fatto, non avrebbe prodotto alcun risultato favorevole, per cui arrivava a rinunciare a ad accettare passivamente lo stimolo negativo che lo tormentava. Poiché l’esperienza precedente gli aveva insegnato che non c’era alcuna via d’uscita dalla situazione opprimente, smetteva di ribellarsi o di evitare la scarica elettrica e diventava una vittima passiva.

Nel caso degli esseri umani questa condizione di impotenza appresa fu correlata a stati depressivi, ansia e bassa autostima, in quanto il soggetto imparava che i risultati erano scollegati e indipendenti dalle proprie azioni, con il risultato di non intraprenderne più in senso propositivo. Questo senso di impotenza, una volta sviluppato, tendeva anzi a estendersi anche ad aree della vita che andavano oltre gli eventi o la situazione specifici che lo aveva generato, con una sorta di effetto alone. Non credo sia un caso che tutto questo mi sia tornato alla mente in questo frangente.

Chi non si è sentito impotente in un momento storico come questo, connotato da estrema incertezza sul futuro, minacce globali, paure ataviche da fronteggiare? Chi non si è percepito almeno temporaneamente in balia degli eventi e incapace di controllare la realtà esterna, un po’ come i poveri roditori degli esperimenti di Seligman? Tutti noi abbiamo dovuto ridisegnare la nostra zona di comfort e confrontarci con emozioni potenti, per taluni inedite o di eccezionale intensità.

La nostra reazione soggettiva è sicuramente frutto del nostro background culturale, delle esperienze pregresse, della propria costituzione psichica, ma al di là della risposta, più o meno adattiva, che abbiano messo in campo, credo che, almeno per un certo lasso di tempo, tutti abbiamo sperimentato una qualche forma di impotenza e costrizione.

PROATTIVITÀ

Prima che la cosa ci sfugga di mano e diventi cronica, dunque, mi chiedevo come poter porre un correttivo, se non proprio una soluzione definitiva e completa. Come si combatte l’impotenza appresa?

  • Identificando e valorizzando le proprie risorse (personal strenghts);
  • Concentrandosi su ciò che si può controllare;
  • Sviluppando una mentalità proattiva.

Occorre agire innanzitutto su specifici e delimitati fronti, con piccoli passi. Questo consente di percepire immediatamente una possibilità di controllo che è l‘esatto opposto dell’impotenza appresa. C’è sempre qualcosa che si può fare, anche nelle circostanze più estreme e mortificanti.

La capacità di apportare anche un minimo miglioramento al nostro ambiente di vita ci rafforza e ci motiva a creare circoli virtuosi di maggiore positività, senza lasciarci fiaccare dalla frustrazione. Bisogna pensare in grande e agire nel piccolo, che è alla nostra portata. Mantenere la visione più ampia, ma nello stesso tempo evitare che la grandiosità dell’impresa ci demotivi. Piccoli obiettivi realizzabili invece ci potenziano e ci danno una sensazione di efficacia salvifica. Anche impercettibili e apparentemente insignificanti gesti possono davvero fare la differenza, soprattutto in questa fase in cui intorno i più sono indeboliti psicologicamente ed estremamente suggestionabili.

Possiamo davvero incidere in modo significativo nella vita di qualcuno anche con gesti semplici ma altamente simbolici, che raggiungono direttamente il centro emozionale delle persone, aiutandole a fronteggiare meglio la paura, il senso di abbandono, la demoralizzazione. Darsi ad atti di resistenza poetica. Mantenersi saldi ai propri ideali, acquisire maggiore flessibilità e determinazione. Appellarsi al proprio spirito creativo, sviluppare forza interiore. Assumersi il rischio per le proprie azioni. L’unico modo per non fare la fine dei roditori di Seligman è creare un varco nella possibilità di controllare almeno una fetta di realtà, e l’unico modo per riuscirci è crearla, anche quando il margine è molto ridotto.

Fra uno stimolo (circostanza avversa, condizione debilitante, restrizioni imposte, situazione spiacevole…) e la nostra reazione possiamo generare un varco di libertà: la libertà di scegliere come rispondere a quello stimolo ponendoci in una posizione di responsabilità. La responsabilità è appunto la capacità di scegliere la nostra risposta. È questa l’unica forma di controllo che possiamo avere stabilmente sull’ambiente esterno, anche qualora ci trovassimo a fronteggiare situazioni estreme. È facile osservare, anche nelle situazioni di vita quotidiana in tempi ordinari, come uno stesso fattore stressogeno possa dar luogo a una gamma di risposte variegate da soggetto a soggetto. Di fronte a eventi o situazioni drammatiche o fortemente avverse, però, le reazioni tendono a polarizzarsi in due tipi di approcci principali che vanno a caratterizzare le persone secondo uno stile reattivo o proattivo.

“Proattività” è un termine coniato da Stephen Covey e sintetizza l’atteggiamento del soggetto che vede in se stesso il generatore di tutto ciò che gli accade, pertanto è nel suo potere personale: si assume la responsabilità delle sue scelte e dei suoi risultati, considera le varie alternative e agisce per gestire o modificare la situazione svantaggiosa. Anche laddove non si possano prendere iniziative per modificare la situazione o incidere sullo svolgimento degli eventi, il proattivo sceglie la propria reazione esercitando così un’influenza sulla circostanza che si trova a vivere. Responsabilizzarsi, in questo caso, significa mettere il focus non sui fattori esterni su cui non abbiamo potere, ma sulle nostre risorse interne: la nostra reazione dipende sempre da noi e possiamo sempre decidere come rispondere alle circostanze, per quanto avverse esse siano.

Gli individui proattivi sono persuasi che, in qualunque contesto, si possa sempre far qualcosa, scegliere come reagire, che cosa provare, influenzando così il proprio mondo interiore ed esteriore. Non subiscono passivamente gli eventi, ma si pongono di fronte a sfide e difficoltà rispondendo agli stimoli ambientali basandosi sui propri valori, indipendentemente dalle circostanze. Questo modello di risposta restituisce potere all’individuo: si fonda sul potere di cambiare l’esterno cambiando l’interno (noi stessi). Infatti, l’unico fattore su cui possiamo lavorare e su cui possiamo avere controllo, in qualunque contesto, siamo noi. Considerare che siamo gli unici responsabili della nostra vita e del suo andamento ci conferisce potere, ma è al contempo un’ammissione che terrorizza i più. Gli individui reattivi, infatti, preferiscono deresponsabilizzarsi e addossare le colpe della loro condizione a fattori esterni: destino, mercato, politica, sfortuna, istituzioni, famiglia ecc., proiettando così potere su qualcosa o qualcuno su cui non hanno alcun controllo.

Tutto dipende dagli altri, da elementi esterni ed estranei al proprio volere, pertanto vivono passivamente, in balia degli eventi, e non creano le condizioni necessarie per manifestare la vita che desiderano; si appellano a giustificazioni che chiamano in causa motivi di forza maggiore e in tal modo trovano scuse per non agire. “È così, non posso farci nulla”, “Non dipende da me”, “È tutta colpa di…”, “Se solo…” è la loro fraseologia tipica. Poiché i soggetti reattivi considerano fonti esterne la causa dei loro problemi e i generatori della condizione difficile che si trovano a vivere, finiscono per percepirsi vittime e per accettare le cose così come stanno, chiudendo la mente, mettendo a tacere le proprie risorse creative e spirituali, sentendosi inermi e incapaci di incidere sulla situazione.

Il loro percorso di crescita si arresta; infatti, a che serve darsi da fare e magari sviluppare nuove capacità, se tanto niente dipende da me?

LIBERTÀ SALVIFICA

Chi invece si assume rischi e responsabilità sia per i propri successi che per i propri fallimenti e difficoltà, fa tesoro dell’esperienza, implementa flessibilità e determinazione, sviluppa nuove abilità e conoscenze per trovare strade inedite, attiva in se stesso potenzialità prima inespresse e così, indipendentemente dai risultati, attua una crescita personale e può persino diventare una fonte di ispirazione per gli altri.

Non nasciamo proattivi o reattivi una volta per tutte, senza la possibilità di modificare il modo di porci di fronte a sfide e ostacoli. L’ambiente in cui cresciamo certamente ci plasma e modella il nostro approccio alle difficoltà della vita, ma la neuroplasticità del nostro cervello ci viene incontro permettendoci sempre e comunque di modificare l’imprinting iniziale ricevuto. Diventare proattivi richiede un allenamento, né più né meno che qualunque altra abilità e richiede alla nostra mente di fare un cambio di paradigma importante. Questo tipo di approccio comincia a profilarsi come una risorsa sempre più preziosa per affrontare nuovi assetti e possibili cambiamenti non desiderati nella nostra realtà, a cui dovremo trovare velocemente risposte efficaci per non soccombere.

Un fulgido esempio a cui possiamo riferirci per richiamare ispirazione e insegnamento è quello di Viktor Frankl, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, ideatore dell’Analisi Esistenziale e della Logoterapia a seguito della sua detenzione in quattro campi di sterminio nazisti (tra cui Auschwitz e Dachau). Nel suo libro “L’uomo alla ricerca di un senso – Uno psicologo nei lager”, non solo rende testimonianza degli orrori e dei soprusi perpetuati nei campi di concentramento, ma fa tesoro della propria drammatica esperienza per giungere ad alcune considerazioni di carattere generale sull’esistenza umana, che possono essere di aiuto quando ci sfugge di mano il bandolo della matassa. Nonostante le terribili sofferenze e privazioni inflitte ai detenuti, lo spettacolo quotidiano della morte e dell’umiliazione, Frankl osservò che qualsiasi vessazione gli infliggessero i suoi aguzzini, essi non potevano obbligarlo a odiarli. Anche di fronte alla più drammatica delle esperienze umane, possiamo sempre scegliere come reagire. La libertà dell’uomo non risiede nella libertà dai condizionamenti (biologici, psicologici, sociali), ma nella possibilità di decidere con quale atteggiamento affrontare le circostanze in cui si trova. Il suo pensiero e il suo approccio terapeutico si fondano sull’assunto che «…all’uomo si può togliere tutto tranne una cosa, l’ultima delle libertà umane – poter scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, anche se solo per pochi secondi». Anche nel contesto più ostile e raccapricciante l’essere umano resta libero di trascendere qualsiasi condizionamento imposto e la pura disperazione (che è sofferenza senza speranza). In che modo?

Trovando un significato a quella sofferenza che sperimentiamo. In situazioni avverse particolarmente dolorose è quasi naturale trovarsi a credere che la vita non abbia un senso. Un altro scrittore autorevole gettato nello stesso inferno, Primo Levi, arriverà a dire che se è esistito Auschwitz, allora Dio non può esistere (ricordiamo che morirà suicida nel 1987). Frankl si concentra, invece, sul compito di ogni singolo essere umano: quello di trovare un senso per la vita e per la sofferenza; questo significato che ogni persona è chiamata a rinvenire attraverso un processo interiore individuale, non può essere universale, ma unico e specifico per ognuno. Il potere di ogni uomo sta nel cercarlo e attuarlo, a dispetto delle circostanze esterne. In questa fondamentale e salvifica ricerca di un senso al proprio vivere risiede, nella visione dello psichiatra austriaco, la capacità di auto-trascendenza, ossia l’essenza stessa dell’essere umano.

Egli osservò come coloro che riuscivano a trovare dei significati per la loro sofferenza, che avevano motivi forti e chiari per resistere (uno scopo, una missione personale, una persona da amare) avevano molte più possibilità di sopravvivere anche in una situazione estrema. Questo atteggiamento poteva fare la differenza fra la vita e la morte, rappresentare la salvezza fisica e mentale di persone sottoposte a ogni genere di brutalità. I prigionieri che riuscivano a farcela erano in genere coloro che si erano dati un motivo per andare avanti, giorno dopo giorno, nell’inferno di un campo di concentramento nazista.

Coloro che invece si sentivano abbandonati a un destino avverso, tendevano a soccombere.

Frankl ci ricorda la responsabilità dell’uomo nell’affrontare il proprio destino. Egli fece di tale concetto il pilastro della sua concezione antropologica e del suo approccio terapeutico, la logoterapia.

Quale istanza ci permette di reperire un significato più alto? La coscienza, una prerogativa umana che ci può guidare nella ricerca di un’intuizione, di un significato più profondo in qualunque condizione ci si possa trovare. La motivazione primaria dell’uomo è la volontà di significato.

La Logoterapia, in buona sostanza, è un metodo che consente di farci scoprire il senso delle circostanze dolorose e difficili della nostra esistenza per superarle. Frankl indica tre direzioni fondamentali in cui l’essere umano può trovare un senso al suo vivere:

  1. I “valori di creazione”, ossia le sue opere, la sua missione personale, il lavoro, le sue creazioni;
  2. I “valori di esperienza” vale a dire ciò che la persona vive e sperimenta come affetti, legami, amore per qualcuno o qualcosa;
  3. I “valori di atteggiamento, il modo in cui scegliamo di porci quando non possiamo cambiare le circostanze.

In ciò giace la responsabilità dell’uomo nell’affrontare il proprio destino, per quanto sfavorevole e inclemente esso sia. Essere orientati verso qualcosa che ci supera, che va oltre la nostra individualità, qualcosa da realizzare, qualcuno da amare e soprattutto il “come” decidiamo di affrontare i momenti dolorosi e le sfide della vita, ci conferiscono libertà al di là dei condizionamenti esterni.

SARA DINELLI
Psicologa di indirizzo clinico, vive e lavora a Roma. Laureatasi nel 2002 presso “La Sapienza” di Roma. Il suo approccio terapeutico è un percorso evolutivo di consapevolezza che va oltre il livello del disagio e del sintomo per abbracciare ogni piano dell’essere: fisico, emozionale, cognitivo e spirituale. È un viaggio di auto-conoscenza, il riconoscimento dei condizionamenti, conflitti e blocchi verso la riscoperta delle proprie risorse e il raggiungimento della libertà interiore. Il suo obiettivo è lavorare con persone che vogliono crescere, investire in se stesse e nel proprio benessere assumendosi la responsabilità della propria vita attraverso scelte più potenzianti ed efficaci.

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