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Robert Plant, la parabola di una delle più grandi voci del rock

Il blues, gli anni da superstar, la necessità di sperimentare

Parte X

Nato il 20 agosto 1948 a West Bromwich, nello Staffordshire, da Annie Celia Cain e Robert C. Plant, un ingegnere che aveva lavorato anche nell’aeronautica durante la Seconda guerra mondiale, Robert Anthony Plant trascorre l’infanzia nel Worcestershire, mostrando enorme interesse verso il rock’n’roll fin dalla più tenera età. L’istruzione scolastica non arriva a termine: iscritto a un corso per diventare commercialista, lo abbandona dopo appena due settimane. Non solo: se ne va di casa a soli 16 anni, deciso ad approfondire la sua educazione musicale.

Passa di gruppo in gruppo, mentre affina la conoscenza dei suoi idoli del blues, cantanti come Robert Johnson, Howlin’ Wolf e Willie Dixon. A parte sporadici lavoretti (nell’azienda di costruzioni di Birmingham Wimpey come asfaltista e ai supermercati Woolworth), Plant ha le idee chiare: vuole fare il cantante, e nessuno potrà distrarlo dalla sua missione.

Nel 1967 pubblica un paio di singoli solisti per la CBS (Our Song il primo, Long Time Coming il secondo), che tuttavia passano completamente inosservati, ma questa esperienza capita nel mezzo del progetto Band of Joy, fondato l’anno prima insieme al tastierista Chris Brown e il chitarrista Vernon Pereira. Robert entra ed esce dal gruppo a più riprese fin quando, all’inizio del 1968, la terza incarnazione della Band of Joy (ora con Plant, il chitarrista Kevyn Gammond, il bassista Paul Lockey e il batterista John Bonham) registra alcuni demo interessanti. Ma la frustrazione di un mancato contratto discografico li porta, nel mese di maggio, allo scioglimento.

Mentre canta con gli Obs-Tweedle, Plant viene invitato a un provino dal chitarrista Jimmy Page, in cerca di un cantante per il suo nuovo progetto, e il resto è storia. Robert comincia a scrivere i testi per i Led Zeppelin a partire dal secondo album. Inizialmente attratto soprattutto dalla mitologia e la fantascienza, alternati a quel misticismo di cui è pregna, una per tutte, la leggendaria Stairway To Heaven, Robert sa anche diventare più terreno, incarnando anche a livello lirico quella figura di sex symbol che piace tanto ai fan: con i suoi riccioli biondi, è la perfetta icona sexy di un rock macho e virile.

Il suo portamento è sfacciato, spesso canta a petto nudo e con i jeans attillati, catturando senza esitazioni gli occhi delle ragazze del pubblico, in totale delirio di fronte al palco. Per oltre dieci anni, Plant è una delle più grandi rockstar del pianeta. Poi, con la morte di John Bonham, il sogno si spezza: nessuno dei tre superstiti se la sente di continuare come Led Zeppelin e la band si scioglie con un comunicato stampa il 4 dicembre 1980.

Il post Zeppelin è, per Plant, inizialmente molto tranquillo. Addirittura, medita di abbandonare la carriera per dedicarsi all’insegnamento. L’incoraggiamento che non ti aspetti arriva da Phil Collins, che in quel momento sta esplodendo come uno degli artisti più importanti dell’intero decennio: grande ammiratore di Bonham, Collins è disponibile a stare semplicemente dietro i tamburi solo per dare supporto all’amico. È proprio la spinta necessaria in quel momento a Plant, che esordisce nel 1982 con PICTURES AT ELEVEN, dove scrive le canzoni insieme al chitarrista Robbie Blunt. Un anno dopo lo stesso team incide THE PRINCIPLE OF MOMENTS. Entrambi i dischi riscuotono un ottimo successo e così è già opportuno partire in tour, in cui Collins continua a dargli supporto, quando può, alla batteria. Sono i primi passi di una carriera solista che, a oggi, conta dieci album solisti oltre a collaborazioni varie, passando dal grande successo dei primi tempi alla pioggia di Grammy ottenuti in coppia con Alison Krauss. Nel mezzo e oltre, una trasformazione artistica che, partita dall’hard blues, ha toccato influenze celtiche e fortissime ascendenze world music, con un particolare interesse per la musica proveniente da Paesi africani e arabi.

Inizialmente refrattario all’ingombrante passato con gli Zeppelin, Robert ha in seguito collaborato a più riprese con Jimmy Page, realizzando un paio di album (dopo la reunion del 2007, però, ha sempre opposto un netto rifiuto a ogni ulteriore progetto in comune, facendo anche arrabbiare il chitarrista). Inoltre, ha sempre avuto il desiderio di tornare a essere solo il frontman di una band e ci ha provato in varie occasioni: con i Priory of Brion (gruppo folk-rock che, tra il 1999 e il 2000, ha soltanto suonato dal vivo in piccoli club), gli Strange Sensation (dal 2001 al 2007), i rifondati Band of Joy (2010-2011) e infine, dal 2012, i Sensational Space Shifters.

Un successo straordinario, un carisma indiscutibile, un sex appeal devastante (ben conservato ancora oggi). Ma Robert Plant è anche un uomo che ha sofferto tanto, particolarmente per la tragica morte del figlioletto di cinque anni Karac, nel 1977, per un’infezione allo stomaco (gli dedicherà alcune canzoni, tra cui la ben nota All My Love) e il divorzio dall’amata Maureen, che è stata sua moglie dal 1968 al 1993 e gli ha dato altri due figli. Un altro figlio è nato nel 1991 da una relazione tra Robert e sua cognata, la sorella di Maureen, Shirley Wilson. Ma, a parte una love story con la cantante americana Patty Griffin, la vita privata di Plant è sempre stata molto riservata. A parlare per lui, da tempo, non è più il gossip, ma la musica. E quella incredibile voce.

ROBERT PLANT, La discografia solista

Pictures At Eleven
Swan Song, 1982

Un Plant in gilet e pantaloni fosforescenti viene osservato dal suo alter-ego appeso al quadro sulla sua sinistra che sta prendendo fuoco. Così Robert si presenta come solista, spalleggiato dal chitarrista Robbie Blunt, più Paul Martinez al basso, Jezz Woodroffe alle tastiere e Phil Collins alla batteria (in due brani c’è Cozy Powell). Ultimo dell’etichetta degli Zeppelin Swan Song, PICTURES AT ELEVEN è un disco più che dignitoso, che non tradisce le radici rock e fa molto bene in classifica: n. 2 in patria, n. 5 in America, dove il singolo Burning Down One Side si spinge fino al n. 3. A star is re-born.

The Principle Of Moments
Es Paranza, 1983

Squadra che vince non si tocca. Rispetto al debutto, cambia solo il batterista supplente in due brani (Barriemore Barlow) e il disco, pubblicato dall’etichetta dello stesso Plant, ottiene un successo di poco inferiore: n. 8 in USA e n. 9 in patria, dove in compenso il singolo Big Love manca di un soffio la top ten. Album più vario, lambisce l’Oriente su Wreckless Love e prelude al primo tour solista di Plant. Phil Collins, nel frattempo diventato star intercontinentale, si mette al suo servizio dietro i tamburi anche sul palco.

The Honeydrippers: Volume One
Es Paranza, 1984

Gli sdolcinati. Proprio un nome anni 50 per quest’idea partorita dal boss della Atlantic Ahmet Ertegün e abbracciata da un Plant entusiasta. Avviato nell’immediato post Zeppelin ma poi abbandonato quando Plant aveva conosciuto Blunt, il chitarrista blues che cercava, il progetto viene ripreso quasi a metà degli anni 80 e, per fare le cose meglio, ospita alle chitarre nientemeno che Jimmy Page e Jeff Beck. Sea Of Love è effettivamente melensa, ma quanto divertimento in questi 18 minuti.

Shaken ’N’ Stirred
Es Paranza, 1985

“Shaken, not stirred”, dice James Bond per descrivere il suo Martini. Plant, invece, dopo aver agitato, decide anche di mescolare vigorosamente le carte. Per questo, nell’ultimo album con i fedeli Blunt, Martinez, Woodroffe e Ritchie Hayward (l’ex batterista dei Little Feat), incamera consistenti elementi di sperimentazione e tecnologia. “Siamo negli anni 80”, dirà, “e la gente non è più toccata né politicamente motivata verso le canzoni”. Cori femminili, suoni sintetici in abbondanza, atmosfere bizzarre, ritmiche reggae (Trouble Your Money). L’America risponde ancora bene (n. 20), ma il pubblico inglese resta freddo.

Now And Zen
Es Paranza, 1989

Il 3 febbraio 1988 Plant suona al Marquee di Londra, molti anni dopo i primi successi, presentando la sua band nuova di zecca. E giovane, anche. Capitanata dal tastierista e produttore Phil Johnstone e dal chitarrista Doug Boyle, il gruppo infonde tanto entusiasmo al cantante, che col suo aiuto incide quello che lui stesso definisce “un nuovo inizio”. Robert mantiene un sound moderno ma recupera le sue radici blues, ospita Jimmy Page alla chitarra su Heaven Knows e Tall Cool One e butta dentro persino sample dei Led Zeppelin: si sta finalmente riappacificando col passato e il pubblico se ne accorge (n. 6 in America, n. 10 in patria).

Manic Nirvana
Es Paranza, 1990

Con il solo cambio di bassista (entra Charlie Jones, futuro genero di Plant), la formazione acquisisce grinta e rientra su sentieri più rock e meno elettronici. La voce torna a graffiare e sicuramente i Led Zeppelin non sono mai stati così vicini, sia stilisticamente che fisicamente (due anni prima il gruppo, con Jason Bonham alla batteria, aveva suonato per il quarantennale della Atlantic, e Robert aveva cantato un brano nel disco di Page). La critica applaude, ma il pubblico inglese snobba ancora una volta il disco di Plant, che però negli States arriva comunque al n. 13.

Fate Of Nations
Es Paranza, 1993

Tre anni dopo cambia tutto, o quasi. Restano Jones e Johnstone, ma si aggiungono ospiti prestigiosi (Máire Brennan, Nigel Kennedy, Francis Dunnery, Richard Thompson) e non – due dozzine di musicisti per un artista solitamente abituato a lavorare in piccolissime unità. Soprattutto, il cantante decide di tornare a radici folk che, strada facendo, inglobano elementi world. Anche i testi sono più arrabbiati, stimolati dalla sovraesposizione mediatica della guerra del Golfo. Un album molto vario e profondo, che si colloca come un momento determinante nella sua carriera e che, non a caso, resterà l’ultimo per un bel pezzo.

Dreamland
Mercury, 2002

Plant forma un altro gruppo, gli The Strange Sensation, con Justin Adams e l’ex Cure Porl Thompson alle chitarre. Occorre reinventarsi e, poiché le energie per scrivere nuovo materiale sono poche, tanto vale seguire tanti esempi illustri e realizzare un disco di cover personalizzate: roba di Tim Buckley (la splendida Song To The Siren), Bob Dylan, Youngbloods, Moby Grape e quella Hey Joe resa nota da Hendrix. Arido sul piano della scrittura, il disco mette però in campo un suono nuovo: lisergico, etereo, sperimentale. E anche la voce di Plant è particolarmente studiata e variegata.

Mighty ReArranger
Sanctuary, 2005

Ci vuole poco perché gli Strange Sensation diventino una vera band. Tanto che il nome del gruppo non solo appare in copertina accanto a quello del leader, ma tutte le canzoni sono scritte da tutti e sei. Proprio come si faceva una volta. Intanto c’è stato l’11 settembre, e intanto c’è stato il rifiuto di Plant di andare a ritirare un Grammy come membro dei Led Zeppelin, in quanto impegnato con il nuovo progetto. I testi sono più cupi, specchio dei tempi tribolati che si stanno vivendo, la musica ormai conserva poco del vecchio hard-blues e si avvicina molto a influenze mediorientali.

Raising Sand
Rounder, 2007

Alison Krauss è una cantante e violinista americana molto nota in ambiti country-bluegrass: difficile immaginare una partner più improbabile per Robert Plant. E invece il connubio funziona in maniera fantastica, complici gli arrangiamenti acustici del produttore T-Bone Burnett: chitarre, basso, banjo, pedal steel, pump organ, arpa. Un altro disco di cover, sì, ma un disco diverso. Canzoni di Gene Clark (due), Townes Van Zandt, Everly Brothers, più quella Please Read The Letter già inclusa in WALKING INTO CLARKSDALE. Bellissimo, merita pienamente i tanti premi ottenuti, tra cui ben cinque Grammy.

Band Of Joy
Decca, 2010

Dopo aver collezionato oltre 40 anni di successi, Plant torna alle basi, almeno sulla carta. Questa incarnazione della ‘banda della gioia’ non ha ovviamente nulla a che fare con quella del 1966, né come componenti, né sul piano stilistico. Qui c’è infatti un’atmosfera vicina al folk rock, incentivata dalla strumentazione acustica e dalle armonie vocali di Patty Griffin. Quanto al repertorio, attinge a brani tradizionali e omaggia Los Lobos, Richard Thompson, Townes Van Zandt e i Low, di cui viene riproposta Monkey in una versione parecchio originale.

Lullaby And… The Ceaseless Roar
Nonesuch, 2014

Più ninnananna o rombo incessante? Sicuramente la prima: Plant forma l’ennesima band, i Sensational Space Shifters, e la strumentazione si allontana sempre più dal rock tradizionale. Ci sono piano, basso e chitarra, ma anche strumenti etnici come djembe, bendir, tehardant e altri nomi improbabili. In più, loop e drum programming, perché non è più tempo per tenere in piedi steccati e Plant (con i nuovi amici che scrivono con lui tutti i brani tranne il traditional Little Maggie) tocca ambient, world music, trip hop e molto altro ancora.

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