
SIAMO PITTRICI, NON SOLO FIGLIE E MOGLI
Lo sostennero Artemisia Gentileschi, Fede Galizia, Sofonisba Anguissola e molte altre: donne che oltre quattrocento anni fa furono coscienti del loro talento e vollero affermarlo sulla scena dell’arte
Il successo e la diffusione delle artiste nel mondo dell’arte è un fenomeno recente, degli ultimi quarant’anni: per secoli, fin dai tempi di Aristotele, il genio creativo e la capacità d’invenzione sono stati ritenuti fuori dalla portata di una donna. Ma una mostra al Palazzo Reale di Milano – Le signore dell’arte. Storie di donne tra ’500 e ’600 (dal 2 marzo al 25 luglio, catalogo Skira) – mette in scena i capolavori di alcune artiste che riuscirono a emergere: da Lavinia Fontana e Sofonisba Anguissola ad Artemisia Gentileschi, Fede Galizia ed Elisabetta Sirani, con i dipinti di altre 29 artiste. In tutto 150 opere.
Artemisia Gentileschi: Quello sguardo di Davide, che ci fissa dritto negli occhi come Artemisia fissò i suoi giudici
Figlia del pittore Orazio, Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1654) impersona più di ogni altra artista dell’epoca la figura della donna moderna, che lotta con determinazione per affermarsi professionalmente in un mondo esclusivamente maschile e combatte con tutte le forze, accettando le umiliazioni in”itte dal tribunale per ottenere giustizia, tanto da diventare, dagli anni Settanta del Novecento, un’icona del movimento femminista. Artemisia, stuprata nel 1611 da Agostino Tassi, un pittore virtuoso della prospettiva dal quale l’aveva mandata a fare pratica il padre Orazio, è stata infatti protagonista di un processo che l’ha trasformata in un modello di consapevolezza e rivolta. Dal momento che la violenza, raccontata in tutta la sua brutalità, è uno dei temi più frequenti nei dipinti di Artemisia Gentileschi, gli storici l’hanno spesso riferita alla violenza subita. In realtà è stata una straordinaria pittrice, che ha saputo coniugare la rivoluzione caravaggesca con la lezione della scuola bolognese e, in particolare, di Annibale Carracci. Il suo Davide, seduto ai piedi di una colonna in un dipinto che si può identificare con quello descritto nel 1631 dal biografo Joachim von Sandrart in visita, a Napoli, nello studio dell’artista, guarda dritto negli occhi lo spettatore, cercando di stabilire una muta conversazione mentre con la mano destra regge la monumentale testa di Golia, in una scena costruita con rara maestria. Nel 1916 lo storico Roberto Longhi scrisse che Artemisia è stata «l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore e impasto e simili essenzialità».
Lavinia Fontana: Sensualità e misticismo si mescolano nei suoi dipinti come nella sua anima
Anche Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614) è figlia di un pittore, il manierista Prospero. A venticinque anni ne sposa un altro, Giovanni Paolo Zappi, a condizione di poter continuare a dipingere. In verità, lui diventerà suo assistente. Nella seconda metà del Cinquecento, è una delle prime donne a dedicarsi alla pittura in modo professionale: dipinge ritratti e autoritratti, scene sacre e sensuali nudi femminili a tema mitologico, e con Fede Galizia e Artemisia Gentileschi è tra le prime donne a ritrarre scene bibliche. I suoi quadri, come questa suggestiva interpretazione del mito di Galatea (1590) su rame, mostrano un notevole virtuosismo tecnico, che si esercita sui particolari più minuti. Nel 1613, dopo una crisi mistica, si ritira in convento con il marito. Nella mostra di Milano sono esposte quattordici sue opere.
Elisabetta Sirani: Morì a 27 anni, ma passò alla storia come virtuosa del pennello
Giovanissima, Elisabetta Sirani (Bologna, 1638 – 1665) dirige la fiorente bottega del padre, il pittore Giovanni Andrea. Nella sua breve vita ha svolto appena un decennio di attività, ma ha dipinto tele dalla straordinaria forza espressiva, dove ha spesso rappresentato il coraggio femminile e la ribellione di fronte alla violenza e ai soprusi. Le sue donne sono eroine che mettono in ombra i personaggio maschili fino a “cancellarli”: in entrambi i dipinti qui raffigurati sono infatti assenti, anche se chiaramente evocati. Considerata dai contemporanei una virtuosa del pennello per la qualità realistica dei panneggi, Elisabetta Sirani, con le sue figure femminili dallo sguardo risoluto, donne coraggiose, pronte anche a sfidare l’autorità maschile, allude alla determinazione e alla tenacia con cui lei stessa combatteva per affermarsi come pittrice di primo piano. Come dimostra la sua Porzia (qui sopra), moglie di Marco Giunio Bruto, uno dei congiurati che assassineranno Giulio Cesare, che vuole dimostrare al marito la sua lealtà, il coraggio e la devozione nel condividere con lui le gioie e i dolori e persino il gesto violento che egli sta per compiere.
Coltivò l’ingegno fin da piccola in una famiglia “illuminata”
Nata in una famiglia aristocratica ed evoluta, Sofonisba Anguissola (Cremona, 1535 – Palermo, 1625) ha dipinto questo quadro a vent’anni, come si legge nell’iscrizione sul bordo della scacchiera. Considerato tra i capolavori dell’artista, attirò l’attenzione del biografo Giorgio Vasari: «Dico di aver visto quest’anno in Cremona, in casa di suo padre, un quadro fatto con molta diligenza, ritrarre tre sorelle in atto di giocare a scacchi, e con esse loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola». Sono le sorelle di Sofonisba, Minerva, Europa e Lucia, raffigurate in sontuosi abiti ricamati e con pettinature elaborate, in aperto contrasto con l’anziana fantesca. La scelta degli scacchi non è casuale: era considerato un eccellente esercizio intellettuale per una donna, al contrario dei giochi con le carte o i dadi, che dipendono solo dalla fortuna, e si ritrovano nei quadri del Caravaggio e nelle scene d’osteria della Scuola dei Bamboccianti. Il dipinto allude alla ricerca della conquista di un primato femminile non facile da raggiungere ai tempi di Sofonisba.
Fede Galizia: Gli abiti e i gioielli sontuosi sottolineano la bellezza morale delle vittorie femminili
Firmata e datata nel bordo del catino, l’opera di Fede Galizia (Milano, 1578 circa
– 1630 circa), conservata alla Galleria Borghese di Roma, presenta un soggetto caro a molte artiste – in quanto simbolo della rivalsa e del successo femminile in un mondo dominato dagli uomini – che è anche molto apprezzato dal collezionismo contemporaneo. La storia, raccontata nell’Antico Testamento, vede come protagonista l’ebrea Giuditta che, con la complicità della serva Abra, salvò la patria dall’invasione assira uccidendo Oloferne, dopo averlo sedotto: è dunque simbolo della forza e della determinazione femminili, qualità che possono portare alla vittoria, perfino contro un avversario infinitamente più forte e malvagio. Fede Galizia pone, come d’abitudine nelle sue tele, una cura particolare nella resa pittorica delle stoffe e dei gioielli, che sottolineano l’alto significato morale della vittoria della donna, colta in tutta la sua bellezza ed eleganza. L’artista, come Artemisia Gentileschi, esclude dalla rappresentazione il momento drammatico, violento e intriso di sangue della decapitazione, come invece lo dipinse un paio d’anni dopo il Caravaggio nella tela conservata nella Galleria nazionale d’arte antica, in Palazzo Barberini, a Roma. Fede Galizia rappresenta il silenzio che segue la lotta e il bisbigliare complice dell’anziana serva, colta nel momento in cui depone nel catino la testa di Oloferne.