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STORIA OCCULTA/ ROMANI TRA I MAYA

Peculiari resti archeologici nel sito maya di Comalcalco suggeriscono che gli antichi Romani, dal Vecchio Mondo, vennero a contatto con la civiltà precolombiana. Mattoni cotti al forno, con cui costruire i templi e statuine in terracotta in stile romano classico, fanno della città di Comalcalco la maggiore indiziata nello studio dei contatti transoceanici nell’antichità.

Nel recente viaggio in centro-America dello scorso novembre, uno dei siti da me inseriti nell’itinerario era la città maya di Comalcalco, in quanto interessato a osservare personalmente quanto si dice su questo luogo. E in effetti vi ho trovato qualcosa che presento in questo articolo in anteprima. Procediamo con ordine. Nell’archeologia mesoamericana il nome di Comalcalco è ancora in gran parte sconosciuto al grande pubblico, ma tra gli addetti ai lavori si sta facendo largo sempre di più. Ciò ci fa prevedere che, non appena si getterà maggiore luce su molti degli oggetti che ancora rimangono nascosti nella località messicana, la storia di ciò che erroneamente è stato chiamato “Nuovo Mondo” potrebbe cambiare radicalmente. In tempi precolombiani, Comalcalco, luogo di intensi traffici commerciali, tanto fluviali quanto marittimi, situata sulle sponde dell’imponente fiume Mezcalapan – oggi Rioseco – era la capitale politica più importante della zona, la più occidentale del mondo maya. I suoi resti si trovano 60 km a nordovest di Villahermosa, nello stato messicano di Tabasco, in una regione che rimase paludosa e selvaggia sino all’arrivo degli spagnoli, che la disboscarono, e dove il calore torrido rende l’atmosfera quasi irrespirabile. Nonostante ciò, si tratta di uno dei luoghi che maggiormente meritano di essere visitati non solo del Messico precolombiano, ma di tutte le Americhe. Anche se scavi preliminari e tentativi di mappatura sono stati eseguiti da Desire Charnay (1888), Blom e LaFarge (1925), Ekholm (1956-7) e da archeologi dell’Instituto Nacional de Antropologia e Historia de Mexico (INAH, 1960), la prima importante mappatura e il sondaggio architettonico del sito vennero condotti nel 1966 da un team di ricerca dell’Università dell’Oregon, con George F. Andrews come direttore del progetto. Il rapporto di Andrews sulla spedizione è stato pubblicato per la prima volta nel 1967, ma nel 1989 è stato completamente rivisto e aggiornato in un documento di 160 pagine completato da 13 mappe del sito. Ancora oggi rimane l’unico studio completo su Comalcalco mai pubblicato.

Inusuali edifici di mattoni

Il sito di Comalcalco, di una bellezza assoluta, non inferiore ad altri luoghi sacri dell’America centrale, è annoverato tra i siti archeologici più misteriosi del Mesoamerica, in quanto presenta una particolarità piuttosto inusuale per i maya: le sue 375 strutture sinora scoperte, che comprendono una grande piramide a gradoni, sono costituite da milioni di mattoni cotti, che senza dubbio vennero impiegati a causa della mancanza di una cava di arenaria, materiale da costruzione più consueto per questo popolo, nelle vicinanze – trovandosi la più vicina ad almeno 100 km.

Si tratta, inoltre, di mattoni cotti con una tecnica del tutto simile a quella impiegata dal già decadente impero romano della stessa epoca, che corrisponde al periodo postclassico maya: dal III al VI sec. d.C.. Chiunque cammini tra gli edifici di Comalcalco proverà la strana sensazione di trovarsi accanto a vestigia romane.

Molti di questi mattoni, staccati dalla malta che li teneva insieme, mostrano, inoltre, alcuni segni ripetuti simili ai marchi degli scalpellini medievali, che, però, ritroviamo anche in epoca romana, minoica e dell’antica Grecia. Tali segni – che in altri mattoni sono affiancati da personaggi riccamente abbigliati, ritratti di visi, piedi e mani, così come da uccelli, pesci, rettili, esseri fantastici e anche piante architettoniche che non compaiono in nessun altro enclave archeologico maya, né precolombiano, di quelli sino a ora conosciuti.

Vi sono ancora molti milioni di mattoni da scoprire, in quanto, degli ottanta ettari interessati dai resti di Comalcalco, ne sono stati esplorati sinora solamente sei. L’archeologo americano, Neil Steede, della America’s Early Sites Research Society West, che ha studiato Comalcalco dal 1980 al 1983, ha pubblicato nel 1984 un Preliminary Catalogue of the Comalcalco Bricks, in cui ha catalogato un “piccolo” quantitativo di questi mattoni (esattamente 4.612, pesanti in totale 21 tonnellate), fotografandone circa 1.500, i quali presentano iscrizioni estremamente vicine a quelle che si incontrano nei mattoni romani del principio del Cristianesimo. Secondo lo studioso, questi mattoni incisi «sono pezzi di un immenso puzzle che, una volta completato, mostrerà un’immagine rivelatrice della presenza romano-cristiana in America centinaia di anni prima dell’arrivo di Colombo».

Indios in Europa?

La tecnologia del mattone cotto al fuoco di Comalcalco ha portato molti studiosi a esplorare l’eventualità di una qualche forma di intrusione esterna che abbia portato all’introduzione di una tale novità.

Persino il professor Andrews, nel suo saggio del 1966, afferma che «uno dei maggiori quesiti che si sono proposti all’inizio del progetto era se l’uso dei mattoni nelle strutture di Comalcalco rappresenti un adattamento localizzato a una regione dove l’arenaria, o qualsiasi altro tipo di pietra, non era immediatamente disponibile, oppure se rappresentasse l’intrusione di una qualche forma di costruzione esterna». Ovviamente Andrews è molto cauto nell’uso del termine “esterna”, che rimane comunque aperto a molteplici interpretazioni. Più avanti, infatti, lo sostituisce con “cultura parallela”. Alla fine, però, la conclusione di Andrews è che «sembra più probabile che lo sviluppo della costruzione a mattoni sia un adattamento logico a una situazione locale in cui la reperibilità di materiale da costruzione sia scarsa».

Comunque, resta il fatto che l’insorgere dell’uso del mattone cotto al forno, altrimenti totalmente sconosciuto in tutta l’America precolombiana, è inspiegabilmente avvenuto in questa particolare area del territorio maya. In effetti, è così strano che alcuni studiosi ne erano completamente all’oscuro. Herbert Krieger, ad esempio, nel suo Indian Cultures of Northeastern South America, pubblicato nel rapporto annuale del 1934 dello Smithsonian Institution, per provare che le culture amerinde si svilupparono in completa indipendenza da ogni forma di contatto transoceanico, redasse una lista di tratti culturali assenti nelle culture native americane che, invece, ci si aspetterebbe di trovare se fosse avvenuta una qualche forma di contatto. Inconsapevole dell’esistenza di Comalcalco, Krieger pone il mattone cotto in forno tra questi tratti assenti per dare credito alla sua teoria. Da notare che i tratti assenti enumerati da Krieger sono, in realtà, presenti in una o più culture precolombiane, con buona pace degli isolazionisti.

La domanda che ci si pone a questo punto è la seguente: la tecnologia del mattone cotto al forno è arrivata a Comalcalco in maniera diretta o indiretta? Può trattarsi della testimonianza di un fantastico viaggio di andata e ritorno al di là dell’oceano, intrapreso chissà quando e chissà quante volte da navigatori maya? Non siamo in condizione di stabilirlo con certezza. Anche se Comalcalco si trova 15 km a sud della costa del Golfo del Messico, accanto alla città si trova il letto dell’ormai prosciugato Rioseco, affluente ai tempi del fiume Grijalva che, insieme al fiume Usumacinta, che scorre nel vicino Guatemala, forma la rete idrica che riversa nell’Atlantico le acque delle alte terre del Chiapas. Pertanto Comalcalco, al culmine della sua urbanizzazione – prima del prosciugamento dei suoi pantani – aveva accesso al mare. L’abbandono di Comalcalco è stato graduale e probabilmente iniziò all’incirca nel 1350 d.C.

I maya usarono mattoni d’argilla in altre occasioni, ma in questi casi si trattava di semplici mattoni seccati al Sole. Di fatto, gli aztechi successivamente denominarono il sito Comalcalco (letteralmente, “case costruite con comal”), in quanto questi insoliti mattoni – per i quali non esisteva una denominazione nella loro lingua – somigliavano, per il colore e la struttura, al comal, un recipiente di terracotta tradizionale, sia azteco che maya, che si poneva al fuoco per cucinare gli alimenti, dopo essere stato cotto esso stesso.

Viaggi Transoceanici

Dobbiamo al geografo romano Pomponio Mela, che visse ai tempi di Giulio Cesare, un meraviglioso racconto: «Oltre ai filosofi naturali e a Omero – scrive – Cornelio Nepote, storiografo più recente e degno di credito afferma che la Terra è circondata dal mare. Egli si appoggia all’autorità di Quinto Cecilio Metello Celere, il quale ci dice che, quando era proconsole in Gallia (62 a.C.), il re dei Boeti gli donò alcuni schiavi, gente straniera di pelle rossiccia e capelli corvini. Alla domanda da dove venivano, risposero che giunsero dai mari dell’India in una grande canoa di legno, e che furono trascinati da fortissimi venti attraverso i mari intermedi, finendo arenati sulle coste della Germania, dove vennero catturati».

Uomini di pelle rossiccia e capelli corvini attraversano l’Atlantico trascinati da “forti venti” e sbarcano sulle coste settentrionali dell’Europa, concretamente tra i fiumi Weser e Elba. È evidente che non venissero dall’India con una canoa di legno, per grande che potesse essere, ma dal continente che 16 secoli dopo verrà battezzato come “America”. Plinio il Vecchio conferma questa narrazione di Pomponio Mela.

Nonostante l’incendio di Alessandria, sono giunte sino a noi sorprendenti testimonianze del mondo classico circa alcuni contatti con il Nuovo Mondo. Tra le più incredibili sono state rinvenute tra le rovine di Pompei che, come si sa, cominciò a essere scavata durante il XVIII sec. Il botanico Elmer Drew ha identificato, tra i motivi floreali rappresentati in alcuni affreschi dipinti nel I sec. a.C., due piante inequivocabilmente americane: l’ananas comune e l’Ananas squamosa.

Statuette romane in Messico

Pur essendo tutto ciò sorprendente, nel 1933 accadde qualcosa di talmente importante, e contrario alle idee sino ad allora dominanti sullo sviluppo delle culture mesoamericane, che l’antropologo messicano José Garcia Payón non lo divulgò sino al principio degli anni ‘60. Fu l’apparizione di una testa di terracotta, apparentemente di stile ellenistico- romano datata al II sec. d.C., trovata sotto due strati di suolo intatti in un giacimento di cultura azteca-matlatcinca, a Texcaxic-Caixtlahuaca, nella Valle di Toluca, in Messico. L’oggetto è stato ufficialmente riconosciuto come romano dal XXXIV Congresso degli Americanisti tenuto a Vienna nel 1960 e datato alla termoluminescenza presso il Max Planck Institute. Esistono altre tre teste simili di ceramica, ma nessuna di esse offre le medesime garanzie, in quanto ad autenticità stratigrafica. Una è stata rinvenuta dall’archeologo Seler nel 1888, un’altra fa parte della collezione V. Blanco-Labra di Querétaro, in Messico, e la terza si trova nel Museo di Chicago. Una quarta, di provenienza più dubbia, è esposta nel museo annesso alla gigantesca piramide di Cholula,
anch’essa in Messico.

La Scoperta di Forgione

Ma è proprio da una collezione ufficiale, quella dello stesso museo del sito di Comalcalco, che sembrano provenire le prove più incredibili relative a un contatto tra antichi Romani e i Maya di Comalcalco. Il museo di questo sito è stato rinnovato e ampliato solo dal 2012 e, come dice la guida museale, oggi «include una esposizione scientifica aggiornata, una seconda sala espositiva, oltre a pezzi archeologici mai esposti prima». È proprio nella nuova seconda sala, che conserva reperti prima non esposti, che oggi sono visibili al pubblico prove mai presentate o pubblicate, in quanto sconosciute da chiunque, perché in questo luogo ci si reca davvero in pochi e ancor meno entrano nel museo.

Eppure si tratta di pezzi archeologici ritrovati durante gli scavi di questo sito maya, ma probabilmente gli archeologi si sono ben guardati dal diffonderne notizia. È incredibile che siano stati messi in mostra, dato che smentiscono la visione isolazionista, sebbene non accompagnati da alcuna didascalia a supporto. Pubblico le foto che ho realizzato lo scorso novembre prima che spariscano da quelle teche. Credo che chiunque possa immaginare il mio stupore nel vedere quei reperti lì, in bella mostra, suggeritori silenziosi di una storia non raccontata, il contatto tra antichi Romani e i Maya di Comalcalco. Aggirandomi tra le teche delle terrecotte di Comalcalco mi sono trovato davanti a una vetrina senza pannelli esplicativi. All’interno, una testa di cavallo, con tanto di testiera equestre (il cavallo ufficialmente fu portato in America dagli spagnoli, i maya non avrebbero dovuto conoscerlo), un busto di un piccolo Eros alato (altra divinità romana), e due corpi femminili con una testa di donna, certamente statuine di Dee Madri steatopigie dallo stile chiaramente romano classico. Si tratta di terrecotte, in un luogo dove le terrecotte venivano realizzate, ma che non hanno nulla a che vedere con l’arte maya, confermando un contatto tra la civiltà dell’antica Roma e i contemporanei Maya di Comalcalco, forse realizzate proprio in questo luogo da individui provenienti dall’Impero del Vecchio Mondo e qui stanziatisi. Forse gli stessi che insegnarono le tecniche di lavorazione e fabbricazione del mattone cotto al forno che costituisce tutti gli edifici di Comalcalco. Quanto basta per riscrivere la storia.

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