
SULLE TRACCE DEI SIMBOLI TEMPLARI
L’Ordine del T empio ebbe i suoi propri simboli, mentre altri non furono esclusivi dell’O rdine. Cerchiamo alcune di queste testimonianze in alcuni luoghi italiani che hanno visto la loro presenza: T empio di Ormelle, San Jacopo di San Gimignano e San Bevignate a Perugia
Parte IX
L’arte medioevale si esprime in maniera essenzialmente simbolica: il simbolo è difficilmente spiegabile a parole, è soltanto intuibile nella sua immediatezza. Il simbolo medievale è una specie di mandala che deve essere guardato e compreso, in se stesso c’è il significato exoterico ed esoterico e, inoltre, al simbolo stavano sottese profonde allegorie morali e teologiche che venivano illustrate durante prediche e sermoni di monaci. Spesso si sente affermare: questo è un simbolo templare, ma non esiste un esclusività per quello che riguarda l’uso di un simbolo, non ci può e non ci deve essere un senso di proprietà in esso, a parte le insegne araldiche, i colori, i sigilli e tutto ciò che deve evidentemente essere come una “firma”per chi legge. Si deve piuttosto, dopo aver fatto una ricerca sul campo, vedere quali sono i simboli maggiormente usati da un Ordine come quello Templare, partendo però da ciò che è Templare senza commettere l’errore di rendere Templare qualcosa partendo da un simbolo, senza un minimo di documentazione storica ad avvalorarne l’ipotesi. In altre parole i significanti possono essere gli stessi nel corso dei secoli ma i significati possono anche cambiare, contrariamente a quanto diceva
Rene Guenon: si veda ad esempio il simbolismo animale, che spesso è addirittura capovolto nel Cristianesimo rispetto al Paganesimo in una specie di logica dei contrari. In questa accezione, è bene ricordarlo, una croce patente può essere paleocristiana o diventare simbolo dei Cavalieri di Malta, e ciò non può essere contraddetto, anche se sono ben diversi i contesti di un sarcofago o di un abito monacale. Piuttosto sarebbe interessante come mai un determinato simbolo viene a far parte del patrimonio di un gruppo di persone piuttosto che un altro.
Fatto questo discorso non si può negare che esistono alcuni simboli che i Templari usarono spesso, e alcuni rappresentano una costante, dove ancora si possono trovare, nell’iconografia dell’Ordine del Tempio.
DUE CAVALIERI IN UN CAVALLO
Si prenda il motivo dei due cavalieri in groppa al cavallo, che si ritrova anche nel battistero di Lucca e in altre figurazioni romaniche, ma che i Templari fecero proprio come forse il vero simbolo di riconoscimento dell’Ordine. Lo si vede, naturalmente, nel sigillo più noto: questa immagine ha scatenato la fantasia di moltissimi autori, impegnati ognuno a darne una giustificazione e dei significati plausibili. Si è, così, fatto riferimento ad una particolare tecnica di battaglia che prevedeva questo assetto, con un cavaliere a reggere la lancia mentre l’altro impugnava lo scudo, ma questa ipotesi, sebbene suggestiva, non trova né riscontri documentari, né poteva coniugarsi con la necessità di muoversi con comodità e velocità in campo di battaglia. Si è poi parlato di due cavalieri sullo stesso cavallo a simboleggiare la loro povertà, ma anche questa ipotesi non regge nel confronto con la realtà storica.
Inoltre queste spiegazioni non tengono conto del livello più elevato a cui doveva far riferimento il simbolo: si trattava, in questo caso come in altri, di ricordare la dualità presente nell’universo e in particolar modo dell’Ordine: i Templari erano al tempo stesso monaci e cavalieri, uomini di preghiera e terribili militari, in loro trovava espressione la duplice natura umana. Due uomini in un solo cavallo, insomma, a spiegare questa straordinaria contraddizione. Va aggiunto anche il rapporto tra l’Uomo di carne e lo Spirito che lo anima, la sua parte divina. Ecco spiegata la presenza di uno dei due cavalieri dotato di maschera (“maschera” in greco significa “persona”) indicante la personalità umana, e l’altro a rappresentare lo Spirito che lo guida dal suo “nascosto” interiore. Ecco perché è rappresentato dietro il primo.
L’AGNUS DEI E LE CROCI FICHÈE DI TEMPIO
In altri sigilli appare spesso la rappresentazione dell’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che con una zampa sorregge il vessillo ornato di croce; la stessa immagine veniva scolpita al centro della navata, in corrispondenza del coro in molte chiese dell’ordine, oppure si trovava dipinta o in bassorilievo sulla facciata. È chiara l’allusione alle parole di Giovanni Battista che indica in Gesù l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Gv 1,29.36). Anche l’altro Giovanni, l’Evangelista, descrive bene questo simbolo, parlando dell’Agnello immolato dell’Apocalisse (V, 8-14). In un colpo solo i Templari, attraverso l’uso di questo simbolo, ricordavano così il trionfo di Cristo in croce, e i suoi due grandi profeti, i due Giovanni venerati con una devozione particolare da tutto l’ordine.
Tra le croci più usate nell’ordine del Tempio ha grande importanza quella dalla forma detta fichèe, ovvero con il braccio inferiore più lungo rispetto agli altri a simboleggiare una spada. Questo tipo di croce era caratteristico solo di alcuni ordini militari come i Templari e rappresentava, appunto, in un solo simbolo, il solito dualismo di pensiero e azione, la croce e la spada, in una sola definizione, insomma, la “Guerra Santa”. Negli ultimi anni di vita dell’ordine l’evoluzione della croce continua, così che le estremità delle braccia della “patente” (ovvero con le braccia che si allargano verso l’esterno) si incidono e si divaricano, dando luogo a due nuovi tipi: la “Biforcata” e l’“Ancorata”: quando le punte sono ad angolo acuto si ha la tipica croce detta “di Malta” o “Ottagona, che Dante definì «… la rosa dei venti Amalfitana già fatta croce irsuta d’otto punte». Consolidatosi questo modello, divenne emblema di Ordini ospitalieri e militari: San Giovanni dell’Ospedale, poi di Rodi e di Malta, San Lazzaro, Santo Stefano di Toscana, Santa Maria dei Teutonici e altri ancora. L’otto per i cristiani era un numero dai profondi significati teologici; l’ottagono infatti è la forma intermedia tra quella quadrata, riconducibile alla terra e alla materialità, e quella circolare, rispondente alla perfezione e alla beatitudine del mondo celeste. Molte costruzioni che esprimevano riti di passaggio come battisteri e cappelle iniziatiche da sempre hanno avuto questa forma etra le cappelle ottagonali templari ricordiamo quelle di Metz e di Laon. Esempi di croce peduncolate si trovano affrescate su fianco della chiesa di Tempio d’Ormelle, presso Treviso. Qui non ci si può e non ci si deve confondere perché in basso possiamo vedere delle croci di Malta in cotto, mentre le originali croci templari dipinte in rosso, e del XIII secolo, sono affrescate tra gli archetti ciechi del sottotetto, sebbene in parte sbiadite. Si tratta di croci a otto punte che terminano con una specie di pugnale, e questa si è una caratteristica croce degli ordini militari come i Templari e anche dei Teutonici. Una simile croce si può vedere anche sul portale della chiesa di San Jacopo a San Gimignano.
IL NODO DI SALOMONE A SAN GIMIGNANO
La città delle torri, San Gimignano, tra i numerosi edifici di epoca medievale, conserva la splendida chiesa di San Jacopo, che si trova alla fine di via Folgore da San Gimignano presso Porta San Jacopo. Non si conosce esattamente la data di costruzione ma sappiamo che l’Ordine del Tempio la possedeva già nel 1239. Semidistrutta da un assalto della popolazione all’epoca delle ordinanze di Clemente V, nel 1309 fu restaurata con il contributo dello stesso Comune. La piccola chiesa romanica, addossata alle mura cittadine, presenta un’interessante facciata in pietra e mattoni ornata da un bel rosone in cotto e da un portale di tipo pisano il cui architrave reca una croce templare in pietra con una punta al centro del braccio inferiore (croce fichè). Sul tetto il caratteristico campaniletto a vela delle magioni templari. L’interno è a navata unica con volte a crociera e un presbiterio rialzato nel quale si trovano numerosi affreschi di scuola toscana del XIV-XV sec. Di grande importanza simbolica i capitelli delle semicolonne e dei pilastri. In uno, appaiono vari fiori della vita e un giglio di Francia, mentre in un altro è evidenziato l’interessantissimo Nodo di Salomone, quasi una firma dell’Ordine, che come si sa, aveva il suo quartiere generale in origine presso l’omonimo tempio. Il Nodo di Salomone, in termini generali, simboleggia nella sua valenza originaria l’unione profonda dell’Uomo con la sfera del divino e venne usato fin dall’epoca celtica, ma i Templari lo reinvestirono di un significato proprio e lo incisero in alcuni luoghi particolarmente importanti per il loro culto.
LA BARBA SIMBOLICA DI BARLETTA
Nel Museo Civico di Barletta si conservano delle lapidi di frati medievali. Si tratta di tombe di cavalieri giovanniti e templari. Dal confronto risulterebbe che solo i giacenti templari portano una folta barba. Ma nella Regola del Tempio non vi è una prescrizione in cui si trova scritto che i Templari dovessero necessariamente avere la barba; al cap. 21 si legge: “Il drappiere dovrà accertarsi che i fratelli siano stati rasati con tanta cura da poter essere esaminati sia di fronte che di dietro; la stessa attenzione dovrà essere dedicata a barbe e baffi, perché il loro corpo non deve mostrare segni di intemperanza”. Si potrebbe anche intendere che, qualora i Templari avessero portato la barba, l’avrebbero dovuta tenere in ordine. L’uso di lasciarsi crescere la barba tenendola piuttosto lunga sembra ispirato alle pratiche penitenziali dei pellegrini o alle costumanze trovate dai crociati al loro arrivo in Siria: alcuni ordini monastici in Medio Oriente ma soprattutto asceti ed eremiti consideravano il radersi un segno di vanità. In occidente comunque vi era un’equivalenza fra la barba e la dignità virile tanto che il giuramento medievale “sulla mia barba” equivaleva all’espressione “sul mio onore”. Di grande significato simbolico è quindi la dimissio barbae come dimostrarono appunto i Templari che nel 1310 a Parigi comparvero sbarbati dinanzi ai commissari pontifici; esso non meno della deposizione del mantello suggellava la rinuncia e l’abbandono dell’Ordine del Tempio.
Un ulteriore prova del fatto che i Templari avrebbero portato la barba mentre i Giovanniti no, arriverebbe anche dalla miniatura francese della fine del XIII secolo, nell’opera di Jaquemart Gelée Renart le Nouvel; qui, davanti al papa trevigiano Benedetto XI, si vede seduto un Templare ha la barba al contrario del Giovannita e lo stesso Renart, raffigurato per metà Templare e per metà Giovannita, ha il volto barbuto sul lato destro, sbarbato sul lato sinistro. Esistono comunque delle eccezioni che dimostrano come questa regola non fosse sempre seguita. Ma alcuni Templari non avrebbero portato la barba se fossero stati dei cappellani. All’art. 268 della regola infatti si legge: “ …(i fratelli cappellani) indossano la veste chiusa, devono radersi la barba e possono portare i guanti”. Ai preti del Tempio, inoltre, sono riservati diversi privilegi, “devono essere trattati con riverenza, ricevono le vesti migliori di cui la casa disponga e a tavola siedono accanto al maestro e vengono serviti per primi”.
Nella tomba di Don Felipe, nella chiesa di Santa Maria di Villalcazar de Sirga, a Palencia (Spagna), le sculture policrome rappresentano dei monaci provvisti di mantello con la croce (una normale croce assolutamente non patente): ebbene tutti presentano una folta barba e portano il caratteristico copricapo.
SAN BEVIGNATE A PERUGIA
In Francia, la chiesa di Montsaunes, 75 Km a sud-ovest di Tolosa, è un’imponente edificio che ha conservato numerose testimonianze d’arte templare: dalla facciata, ricca di sculture e capitelli istoriati, all’interessante interno, adornato di affreschi dai misteriosi motivi simbolici: scacchiere nei consueti colori canonici dell’ordine, il bianco e il rosso, croci, stelle e teorie di santi. Non si tratta però di un unicum, anzi si è evidenziato come una chiesa dei Templari in Italia dipenda stilisticamente dalla consorella francese. Si tratta della chiesa di San Bevignate a Perugia, dove vi è uno dei cicli iconografici più importanti riguardanti i vari aspetti della vita dei Templari. È probabile che le stesse maestranze che avevano realizzato Montsaunes abbiano successivamente realizzato la pregevole chiesa umbra.
Nel capoluogo umbro, dunque, è conservata intatta la più grande e spettacolare chiesa dei Templari in Italia, forse unica nel suo genere per architettura e arte insieme a quella di Montsaunes nel Midi francese. È è un tipico esempio di architettura romanico-gotica: la sua impronta è severa, essendo la facciata incorniciata da due robusti contrafforti che le danno l’impronta di una fortezza. La chiesa fu costruita tra il 1256 e il 1266, sotto la direzione del frate templare di Assisi Bonvicino, funzionario alla corte pontificia e cubiculario di Gregorio IX. All’ingresso si ammiri il portale originale in travertino a tutto sesto con capitelli raffiguranti animali e foglie, il bel rosone.
Le maggiori attrattive si trovano però all’interno dell’edificio: la navata unica, di forma rettangolare e ad abside quadrata, è tappezzata di affreschi che vanno dal XIII al XV sec. Dietro l’altare si trova un pozzo dall’acqua ritenuta miracolosa, che la tradizione racconta abbia fatto scaturire prodigiosamente il santo eremita Bevignate. Le reliquie del santo, dentro un’urna di legno, sono conservate nella cripta. Usciti dalla chiesa si passi a dare un’occhiata agli edifici del monastero con volte a crociera, la cinta muraria parzialmente conservata e il pregevole pozzo ottagonale.
Come si diceva poc’anzi, all’interno di San Bevignate trovano posto affreschi di varie epoche, in particolar modo del periodo templare. Alcuni, come a Montasunes, sono di carattere essenzialmente simbolico: è probabile, ad esempio, che le nove stelle dipinte nella lunetta dell’abside alludano ai nove leggendari fondatori dell’ordine. Ma altre cicli affrescati tra il 1256 e il 1262 riguardano temi specifici che ci sorprenderemo di trovare in una qualsiasi chiesa. Ivi, infatti, si trovano due scene sovrapposte e contrapposte tra di loro per la diversità del contenuto: una vivace scena di battaglia tra cavalieri cristiani e musulmani (avvenuta nel 1242) e un pacato quadro conventuale con i monaci rappresentati in saio bianco.
Nella scena di guerra alcuni cavalieri combattono cruentemente contro dei musulmani armati di tutto punto. Anche in altre chiese dell’ordine si trovano affreschi con scene di battaglia tra crociati e infedeli: tra questi ricordiamo quelli di Cressac in Francia, databili tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, i quali possono essere considerati dei precedenti iconografici dell’affresco perugino. La raffigurazione della battaglia in San Bevignate si presenta, però maggiormente didascalica e contempla quasi tutto il repertorio dei simboli e delle insegne del Tempio. È da segnalare prima di tutto il gonfalone baussant, forse unica fedele testimonianza iconografica di questo importante contrassegno dell’Ordine. La bipartitura è bianca superiormente e nera in basso, in proporzioni uguali,; sullo sfondo bianco è raffigurata una croce patente rossa.
Contraddittoriamente nella Chronica Majora di Matthieu Paris del 1245 il gonfalone baussant è presentato con i colori invertiti, occupanti proporzioni di campo diverso (d’argent au chef de sable). Nella scena conventuale possiamo riconoscere quattro monaci barbuti, i quali indossano un saio bianco con cappuccio tirato sul capo, che si protendono verso un leone in atteggiamento amichevole; il paesaggio sembrerebbe quello della Palestina, essendoci palme e una cupoletta di stile arabico sul tetto della chiesa.
I personaggi rappresentati dovrebbero essere dei Templari anche se sul saio, che nella regola deve identificarsi con la cappa, non compare alcuna croce; inoltre, all’interno del convento, secondo i dettami della regola, non era consentito coprirsi la testa con il cappuccio. Sono rappresentati con la cappa e con la testa coperta alcuni Templari a cavallo nella cappella di Cressac.
Secondo alcuni autori la scena di San Bevignate potrebbe anche riferirsi alla leggenda di san Girolamo, il quale ricevette nel suo monastero di Betlemme un leone, al quale, per curarlo, estrasse una spina dalla zampa. In questo contesto, però, sembra che la scena sia da mettere in relazione proprio con un passo della regola templare. Il cap. 56, che si intitola “Del Leone” non ricorda solamente il dovere dei Templari di “difendere la terra dai pagani miscredenti” ma anche che la proibizione a cacciare non riguarda il leone, “il quale è sempre in cerca di vittime da divorare, le sue zampe contro ogni uomo e le braccia di ogni uomo contro di lui”. Qui la scena di caccia sarebbe rappresentata solo metaforicamente, essendo simboleggiata da una miracolosa opera di convincimento del leone assimilato all’infedele.