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VINCENT VAN GOGH, QUANDO LA PAZZIA DIVENTA GENIO

Vincent van Gogh è uno di quegli artisti che piace a tutti, un po’ come gli impressionisti. Piacciono i suoi colori, i ritratti, i paesaggi suggestivi: un grande artista, molti direbbero, che per realizzare certi capolavori ha dovuto studiare il disegno e la tecnica per anni. E se invece la genialità fosse frutto della malattia mentale che lo affiiggeva?

In mostra a Milano, van Gogh soffriva di disturbi mentali che lo portarono all’isolamento e a compiere atti tragici e incomprensibili (ricordate l’automutilazione dell’orecchio?). Era un uomo sofferente: aveva avuto un difficile rapporto con i genitori, manifestava chiusura sociale, inclinazione al misticismo e a una religiosità esasperata tanto da essere chiamato il pazzo di Dio, subiva continui ri”uti da parte dei committenti, non era benvoluto nella cerchia artistica e neanche in quella affettiva. Unici amici erano il fratello Theo e il pittore Gauguin, che però lo abbandonò. Se tutto questo ha certamente infiuenzato il suo modo di dipingere, ciò che ancora di più ha infiuito sulla sua arte era ciò che succedeva dentro alla sua testa.

Di che cosa soffriva van Gogh?

Secondo la psichiatra americana Kay Redfield Jamison, di diverse malattie: schizofrenia, epilessia, disturbi bipolari, manie ossessive e sindromi maniaco-depressive che si manifestavano con diversi sintomi. Anche dalle lettere inviate al fratello Theo e dalle testimonianze raccolte, per esempio nei diari degli artisti che lo conoscevano, si capisce la sua irrequietezza: attacchi di panico, cambi umorali improvvisi, allucinazioni visive e uditive, iperattività alternata a momenti di passività, giorni in cui dipingeva tanto da dimenticarsi di mangiare e dormire e altri di totale inattività, violenza e agitazione. In poche parole era un soggetto affetto da schizofrenia, malattia che, secondo gli esperti, ha condizionato il suo modo di dipingere: Esistono molti studi sulla propensione alla produzione artistica favorita da certe situazioni neuropatologiche. La produzione artistica dei pazienti schizofrenici è stata paragonata a quella dei bambini o dei selvaggi, cioè di popolazioni considerate più primitive e meno evolute rispetto a quelle occidentali. Freud per primo ha evidenziato in queste forme di arte una sorta di produzione spontanea del cervello, ovvero una creatività allo stato puro.

C’è un legame, quindi, tra schizofrenia e creatività?

Diversi studi hanno dimostrato come una percentuale molto più alta di artisti, rispetto al resto delle persone, condivida tratti comportamentali propri degli schizofrenici. Ci sono anche casi documentati di artisti che hanno smesso di produrre arte quando sono stati trattati con gli psicofarmaci indicati nella cura delle schizofrenie. Un esperimento sulla creatività è stato condotto nel 2013 da un team di ricercatori del CIMeC e del MART, il museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto: Abbiamo analizzato, tramite risonanza magnetica funzionale, che cosa succede nel cervello durante lo svolgimento di un compito creativo nelle persone sane e in chi è affetto da schizofrenia. Quando una persona sana è impegnata nello svolgere un compito creativo, due aree del cervello lavorano in armonia e in modo organizzato: la regione deputata all’elaborazione di piani e progetti e quella esecutiva, che mette in pratica i compiti. Nei pazienti schizofrenici, invece, manca il corretto utilizzo delle zone prefrontali, quelle deputate allo svolgimento attivo dei compiti e alla presa di decisioni, ma anche all’autocontrollo e ai comportamenti sociali. Il mancato utilizzo di queste zone, libera e incoraggia l’attività dell’area responsabile della creatività. Non c’è l’equilibrio tra le due aree, come nei pazienti sani: la regione cerebrale che si occupa di generare idee prende il sopravvento ed è libera di scatenare la creatività senza controllo.

Il rapporto tra genio e follia

è stato analizzato anche dai ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma. Gli scienziati hanno analizzato oltre un milione e 200mila pazienti ricoverati negli ultimi 40 anni in Svezia e hanno scoperto che chi si impegna in opere artistiche ha il 50 per cento in più di possibilità di soffrire di depressione, abuso di alcool e droghe, ansia, pensieri mistici ossessivi e istinti suicidi. Tutti disturbi di cui ha sofferto Vincent van Gogh, che ha messo fine alla sua vita nel 1890 all’età di 37 anni con un colpo di pistola, ormai soggiogato dai pensieri ossessivi della sua mente.


SPIRALI PERFETTE

Osservando quadri come Notte stellata (1889), vi accorgerete che il dipinto è caratterizzato non da pennellate fluide ma da tratti con sovrapposizioni di colori. Si tratta di una tecnica derivata dalle convinzioni degli impressionisti: è l’occhio che deve ricomporre i colori di un quadro, non il pittore.

L’accostamento
delle tonalità provoca vibrazioni a livello della retina, facendo apparire i colori più luminosi. Van Gogh aggiunge a tutto questo un tocco personale: le spirali. È un comportamento tipico degli schizofrenici, che hanno un particolare modo di curvare le linee in maniera ripetitiva. In base agli studi del fisico Jose Aragon dell’Università messicana di Queretaro, van Gogh è riuscito a rappresentare il “flusso turbolento”, ovvero spirali matematicamente perfette e in linea con le equazioni dedotte dal matematico Andrei Kolmogoroy (come quelle per spiegare la variazione di velocità dei mulinelli nell’acqua). Secondo gli esperti, questa capacità, riscontrata solo nelle sue opere, era dovuta ai disturbi mentali: quando il pittore era ricoverato e sotto l’effetto di medicamenti, come il bromuro di potassio, l’effetto non si riscontrava nei dipinti.


Il giallo della malattia

Nella gran parte della produzione artistica di Vincent van Gogh è visibile l’uso predominante del giallo, alternato a colori scuri, tendenti al viola. Diversi studi hanno confermato che la schizofrenia influisce sulla predilezione per l’uso di alcuni colori, in particolare il giallo e il viola. A contribuire alla scelta dei colori del pittore olandese potrebbe anche essere stato un liquore, in voga nella seconda metà dell’Ottocento: l’assenzio. Questa bevanda contiene infatti un composto chimico, il tujone, che in quantità elevate risulta tossico per il sistema nervoso, provocando la xantopsia, una malattia che determina la visione gialla e viola degli oggetti. Secondo Paul Wolfe, direttore del Dipartimento di patologia e medicina di laboratorio all’Università della California di San Diego (Usa), il pittore quindi dipingeva ciò che vedeva. Nel suo caso, inoltre, la tossicità dovuta ai bicchierini di assenzio era aggravata anche dall’uso della digitale, un farmaco che adoperava contro l’epilessia, e dall’impiego smodato di canfora che posizionava sotto il cuscino perché la riteneva prodigiosa contro l’insonnia.


Girasoli a rischio

I Girasoli (1888-1889) potrebbero perdere la propria luminosità nel giro di qualche anno. A scoprirlo è stato un team di ricercatori del Cnr e di centri di ricerche francesi, tedeschi e olandesi, che hanno studiato le componenti chimiche e le relative trasformazioni dei pigmenti nei suoi quadri. A causare il cambiamento dei toni sono le lampade a led, usate per illuminare i dipinti. Il pittore usava diversi gialli: middle yellow (cromato di piombo, chimicamente stabile anche sottoposto ai raggi UV); lemon yellow e primrose yellow (ad alto contenuto di solfati, che virano il colore esposto alla luce blu da giallo a marrone).


PERCHÉ CI PIACE VAN GOGH?

Perché van Gogh piace alla maggior parte delle persone, anche a chi ne capisce poco di arte? La responsabilità è dei neuroni specchio, cioè quelli che si attivano quando cerchiamo, inconsciamente, di ripetere i gesti di chi abbiamo di fronte. Più il quadro ricrea tratti facilmente ripetibili (per esempio le spirali o le linee, come nel Campo di grano), più il nostro cervello cercherà di ripetere mentalmente i gesti del pittore e questo innesca un meccanismo di apprezzamento. Secondo gli studi, simulare i gesti dell’artista aumenta la valutazione positiva che abbiamo di un’opera. In più, secondo una ricerca condotta dall’Università La Sapienza di Roma, l’attività cerebrale è più intensa quando osserviamo un ritratto, in particolare quando guardiamo negli occhi il soggetto dipinto. Ecco perché i ritratti e gli autoritratti di van Gogh riscuotono grande apprezzamento.


IL MISTERO DELL’ORECCHIO TAGLIATO

Nel 1888 van Gogh viveva ad Arles con il suo amico, il pittore Paul Gauguin. Un giorno il pittore olandese prese un rasoio e si mozzò l’orecchio. Il motivo? C’è chi dice che il gesto fu compiuto in seguito a una lite con l’amico a causa di una prostituta, Rachel, alla quale, poi, portò in dono l’orecchio mozzato (lei non apprezzò il regalo); altri, come lo storico dell’arte Martin Bailey, sostengono invece che il pittore compì l’insano gesto perché aveva appena appreso del matrimonio del fratello Theo. Si aggiunge un’altra ipotesi: l’orecchio fu tagliato da Gauguin. A sostenerlo sono due studiosi tedeschi, Hans Kaufmann e Rita Wildegans, che hanno analizzato i rapporti della polizia e i ritagli dei giornali dell’epoca. La supposizione è che i due litigarono forse perché van Gogh temeva di essere abbandonato. Per difendersi Gauguin avrebbe preso la spada e colpito all’orecchio l’amico. Lui sostenne la tesi dell’automutilazione sperando di convincere Paul a continuare la convivenza.

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